martedì 17 dicembre 2013

EDITORIALE


EDITORIALE.
(At the bottom of the page the Editorial in english)




Le ragioni per cui ci avviamo a questa impresa hanno a che fare con un modo d'intendere la poesia oggi e anche col rimettere in circolo una parola che in Italia è diventata da tempo un tabù impronunciabile: epica, termine contenuto nel nome del sito, cui, tuttavia, l'aggettivo ‘nuova’ conferisce una qualificazione imprescindibile. Non intendiamo, infatti, coltivare la nostalgia di una tradizione e neppure semplicemente riferirci al sentimento epico

che accompagna la storia umana fin dalle sue origini, ma cercare di definire i caratteri che oggi una scrittura poetica epica necessita di possedere. Ciò che ci spinge a farlo è prima di tutto la nostra poesia, che ci sembra vada da tempo in quella direzione, ma anche la convinzione che un ripensamento del genere epico in forme nuove sia maturo e necessario. Il bisogno di lasciarsi  alle spalle i giochi linguistici pirotecnici del significante e/o i ripiegamenti esistenziali per rivolgersi positivamente alla ricerca di una poesia che torni a guardare alla Storia, alle sue tragedie ma anche al nuovo che chiede di essere nominato e che c'è, riscoprendo anche la possibilità di narrazione in versi, ci sembra nello spirito dei tempi.
Il sito è articolato in cinque rubriche. La prima, che abbiamo chiamato TESTI MANIFESTI, è di testi di autori che noi riteniamo emblematici per il percorso che intendiamo compiere: sono classici a cavallo fra '800 e '900, e poi novecenteschi, italiani ma anche non italiani (con testo a fronte), con una nostra nota critica. La seconda, intitolata MULTIVERSO, sarà una rubrica di poetica nella quale cercheremo di mettere a fuoco le ragioni delle nostre scelte. Una terza, CORALIA, sarà dedicata al contesto in cui questa proposta va a calarsi e quindi avrà un intento anche critico. Seconda e terza rubrica affrontano i temi di discussione perlopiù nella forma del dialogo, quale si è configurato nei mesi di preparazione. Nella quarta rubrica, CONTEMPORANEA, pubblicheremo poesie di autori e autrici contemporanei/e, compresi i nostri. Tutte le rubriche sono un 'lavoro in corso' e dunque verranno via via arricchite. Infine nella quinta, RIFLESSIONI A MARGINE E COMMENTI, pubblicheremo le critiche le sollecitazioni e i commenti che ci verranno prposti da lettori e lettrici. 

L'intervista a Derek Walcott, con cui inauguriamo la nostra impresa, fu pubblicata nel 2002 dalla rivista Poiesis. La riproponiamo qui perché nelle sue risposte il poeta di St. Lucia rimette in circolo un'idea di poesia che noi sentiamo attuale e necessaria. Walcott è un poeta epico e moderno e dunque nuovo: il suo poema ‘Omeros’, ma anche le sue opere precedenti, costituiscono uno degli esempi più alti di una poetica che trova ampio spazio in tutte le maggiori letterature e che in Italia è stata volutamente oscurata.    
Invitiamo coloro che desiderassero intervenire con critiche, commenti e riflessioni a inviarle alla nostre mailing personali: provvederemo noi a inserirli nella sezione RIFLESSIONI A MARGINE E COMMENTI. 
paolo.rabissi@gmail.com. franco_romano@fastwebnet.it. 


EDITORIAL.


The reasons why we undertake such an enterprise are many and have to do with a way of intending poetry, nowadays. Our intention is to give voice to a word that in Italy has become, since a long a time, an unspeakable taboo: epics. The word is in the the title of our site (DIEPICANUOVA sounds like about new epics in English).   Anyway, the adjective new is as important as the the word epics. We do not want to cultivate the spleen for a tradition, neither simply refer to the epic feeling that accompany human history since its origin. Our intention is to define what features  epic poetry should have nowadays. What pushes us to do this is first of all our poetry that, since a long time, goes towards that goal, but even the belief that a reflection of the epic genre in a new form, is necessary. We need to slide from the linguistic and pyrotechnical tricks of the signifying, or the existential bending to turn to the research of a poetry able to look again at the history and its tragedies, but also to what is new that already exists and expect to be named. To do so, it is also necessary to discover again the opportunity of narrating in verses.
The site will be made of four columns. In the first, TESTI MANIFESTI (Texts Manifests), we shall publish poems by authors that we consider emblematic for the  idea of poetry we are going to follow. They will be classic between, 19th and 20th century and 20th, Italians and not. We shall publish them in original language and translation, at least for what concerns the most well known European languages in Italy. The second (MULTIVERSO) will focus questions of poetics and the reasons of our choices. The third one (CORALIA) will deal with the context into which our proposal is formulated; hence it will have a critical intention. Last but not least, in the fourth column (CONTEMPORANEA), we shall publish poems by contemporary authors, Italians and not,  included ours. Finally, ESSAYS, REMARKS AND COMMENTS, written by the readers.

The interview to Derek Walcott was published in 2002 on the magazine Poiesis. We are publishing it again because in his answers the poet of St. Lucia proposes an idea of poetry that we feel necessary and topical. Walcott is both an epic and modern poet, thus new. His poem 'Omeros' but even his previous writing are one of the highest example of a poetic that finds wide hearing in all the major contemporary literatures and that in Italy has been deliberately obscured.  
INTERVISTA A DEREK WALCOTT
Di Franco Romanò.
Pubblicata la prima volta sulla rivista Poiesis nel 2002.
Franco Romano:
Signor Walcott, in un'intervista rilasciata al quotidiano 'II sole 24 ore' lei affermava che solo gli artisti mediocri hanno paura di avere dei maestri. Vorrei cominciare da questo perché il Novecento europeo è stato il secolo dell'originalità a tutti i costi...

DEREK WALCOTT:
Può precisare meglio a quale periodo e a quali autori si riferisce?

FR
Penso a tutto ciò che è avvenuto negli ultimi dieci anni dell'800 e i primi venti del '900 in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e poi penso a movimenti come 'Dada' e a quello che ne seguì anche in termini di imitazione...
DW
Sì, capisco... Vorrei cominciare da una frase di Joseph Brodskji, quando disse: "Perché è necessario avere un ventesimo secolo quando c'è già stato il diciannovesimo?"
E' un'osservazione molto brillante perché in termini di intelligenza dei tempi e di arguzia gli scrittori del diciannovesimo secolo che avevano concepito l'idea dell'emergere della città (nel senso mercantile, borghese o artigiano del termine) come soggetto in sé, avevano raggiunto una scala di valore molto elevata; parlo dello spirito cittadino che esiste in Balzac o in Dickens. Questa consapevolezza della città raggiunse le sue punte più elevate con la fine del secolo e questo ci dà la misura della solidità del diciannovesimo secolo. Forse quanto sto dicendo potrà sembrare il discorso di un uomo anziano, ma io credo che molti dei movimenti venuti dopo siano stati vittime di una certa petulanza, dell'invidia e dell'ambizione rispetto a questa grandezza. Si può anche comprendere perché se si è coscienti del valore degli autori che ho citato in precedenza, oppure della forza dell'architettura compositiva di un Baudelaire, uno scrittore o un gruppo di scrittori che danno vita a un movimento capiranno che è un po' arduo competere con lui, avranno la tentazione di dire non facciamo questo non è importante, facciamo altro...E' cosi che cominciano le avanguardie. Prendiamo 'dada' per esempio. Se io li accusassi di essere un movimento ingenuo, infantile e naif, che crede nel senso del nonsenso, loro sarebbero stati i primi a darmi ragione; ma anche ammettendolo questo non fa venire meno il fatto che infantili erano e restano.
Nel dire ciò, però, non intendo affermare che l'artista sia un essere sublime; anzi, sono questi movimenti che pure affermando esattamente l'opposto portano alla stessa conclusione perché anche l'idiozia in un certo senso è sublime. C'è una bella differenza fra l'idiozia di una certa avanguardia e la semplicità, prendiamo, di un Blake, oppure la semplicità e persino la chiarezza di un Verlaine.
Insomma l'avanguardia ha tutti i difetti di qualcosa di giovanile, di non maturo, un esperimento, anche se va detto che parole come sperimentare o esperimento non si possono circoscrivere a quei movimenti. Perciò quello che dico è che molti dei grandi poeti del novecento hanno un'eredità, guai a non riconoscere l'eredità dei grandi maestri, essa esiste eccome se esiste! Ma questo è stato ritenuto ridicolo, fuori moda, vecchio.
A questo proposito vorrei parlarle della mia esperienza di docente. Io insegno negli Stati Uniti e il concetto di insegnare la tradizione negli Usa non è un vero concetto e le assicuro che è molto complicato insegnare in una cultura che pensa che tutto ciò che esiste sia stato fatto ieri o l'altro ieri. Non hanno un'idea della storia... L'idea che bisogna avere cura dei maestri nel processo di apprendimento nelle arti, è stato molto minacciato durante il secolo scorso da molti fattori, anche molto lontani fra loro, incluso il cinema che insieme ad altro ha contribuito a trasformare l'artista in un performer, poesia inclusa. Insieme all'idea della performance è venuta avanti anche quella della competizione.                     
FR
A questo proposito le chiedo: il poeta a fronte di queste trasformazioni e insidie deve cercare di assecondarle o di resistervi secondo lei?
DW
Resistere? Vede è difficile farlo, gli scrittori, i romanzieri in particolare negli USA seguono quest'idea, si comportano come le star del cinema, lo scrittore è una persona pubblica. Si tratta di un'idea molto forte che però ha un'influenza negativa sul talento individuale dell'artista. Di buono c’è che, sebbene alcuni poeti siano inclini a seguire questo modello, la poesia è più difficile da corrompere perché tende a espellere il poeta corrotto.

FR
Ciò che trovo sorprendente nella sua poesia è la mescolanza fra uno scenario tipicamente caraibico e il continuo riferimento alla tradizione classica europea, greca, latina e non: Lucrezio, Dante, John Donne, tanto per fare alcuni nomi. Ho notato però che quanto più ci avviciniamo al secolo precedente, al '900, i vostri riferimenti sono quasi esclusivamente concentrati sui grandi russi: Achmatova, MandeI'stam. Come mai questa scelta e più in generale cosa rappresenta per lei il patrimonio classico della letteratura europea?
DW
Se leggo un libro di Pastemak, oppure, poniamo una traduzione dell'Odissea, la domanda terribile per me è: dove sono mentre leggo questo libro? Sono ai Caraibi, su una piccola isola, non c'è nulla intorno a me che possa evocare la storia: non ci sono rovine, non ci sono castelli, acquedotti ecc. Perciò, in quanto lettore, io mi trovo in una condizione molto elementare perché ho a che fare con gli elementi primari: il mare, l'aria, la natura, il vento. Questo è il mio contesto. La stampa non ha nulla a che vedere con il paesaggio che mi sta intorno.
Ma il senso della lettura è fortemente rafforzato dal fatto che mi trovo in una situazione dove dominano gli elementi. Per questa ragione non posso leggere con un senso della temporalità. Se si legge la stessa cosa in Italia, o a New York, essa entra immediatamente in un contesto, è un po' come la parte di un ampio dizionario.
La condizione in cui mi trovo è quella dell'innocenza, che non è naturalmente ignoranza. Mi dico che sono fortunato per questo, perché ritengo che la lettura innocente, anche per un uomo della mia età, sia importante. In un certo senso leggere in questo modo porta molto vicino al processo stesso di formazione della poesia. In questo senso per innocenza non intendo il vuoto, il nulla, ma una disposizione a lasciarsi rinfrescare da ciò che si legge. Venendo più direttamente alla sua domanda, essere debitori verso i grandi autori del passato è per me naturale, mentre penso che per un artista europeo significhi anche portarsi sulle spalle un grande fardello; essere un pittore in Italia, per esempio, vuole dire portarsi un gran peso sulle spalle.
FR
Ciò che mi sorprese quando mi avvicinai le prime volte alla sua poesia era una certa mancanza di riferimenti ad altri autori del continente americano, sia del Nord sia del Sud. Per esempio, trovo che la natura sia molto importante nella vostra poesia e mi sono domandato spesso quale sia il suo rapporto, come lettore e anche come poeta, con Neruda, per esempio.
DW
Ovviamente quello che lei dice ha a che fare con la lingua. Se io fossi nato in una parte dei Caraibi di lingua spagnola, avrei certamente avuto un rapporto con quella letteratura. Il problema dei Caraibi è che le origini coloniali sono differenti; danesi, francesi, inglesi, spagnoli... Il temperamento delle diverse zone è molto diverso e questo è un valore grande; le Barbados sono molto inglesi, Guadalupe è molto francese. Quando sono entrato in contatto con scrittori latino-americani come Neruda oppure Gallego e altri ho riscontrato subito un'identità per quanto riguarda la storia, nel senso che abbiamo condiviso alcune esperienze: le grandi piantagioni, la schiavitù, per esempio. Per un certo periodo di tempo io sono passato attraverso la loro esperienza, posso dire di essere stato anche influenzato da Neruda, ma poi ho abbandonato quella strada perché c'era qualcosa di temperamentale che non mi si addice... Neruda per esempio può essere molto eccitante in un modo sbagliato per chi scrive in inglese perché l'enfasi nella pronuncia delle vocali spagnole non si addice alla lingua che uso come scrittore. Ci sono aspetti dello spagnolo che non mi piacciono: non amo per esempio il Lorca surrealista, così come il Gallego surrealista. Ecco, quando sento troppo la ridondanza dello spagnolo io divento molto inglese, non mi piace una certa pomposità. E' una tipica reazione coloniale allo spagnolo e all'italiano. Naturalmente gli aspetti più duri di Lorca o di un Montale sono formidabili.                                                    ' .
Per quanto riguarda il perché manchino riferimenti anche ai nord americani nella mia poesia, diciamo che non ho amato mai troppo il verso lungo, o diciamo troppo lungo, alla Whitman per intenderci, o anche alla Ginsberg; il metro è troppo spinto. Anche le teorie di coloro che sostengono l'espansione del verso facendola dipendere dal respiro, incluso lo stesso William Carlos Williams, mi sembra introducano una forzatura. C'è troppa teoria in questo modo di fare e non mi piace neppure l'opposto e cioè la contrazione eccessiva: volere a tutti i costi evitare il pentametro, coscientemente, mi sembra un esperimento: credo che i due estremi del verso troppo lungo o troppo corto vadano evitati.
FR:
Probabilmente per lei Whitman è stato importante per il tono epico ed epico lirico della sua poesia....
DW
Sì, questo sì, mentre sono sospettoso della deliberata espansione del verso.
FR
L'attenzione per la metrica è costante nella sua poesia. Significa che siete riluttante e sospettoso nei confronti del verso libero?
DW
Ho scritto anche versi sillabici... In generale penso sia un problema che riguarda la personalità del poeta, però credo che ci debba essere il rispetto per certi limiti. Pensare, come le dicevo, di potere espandere o contrarre il verso artificialmente è un po' egocentrico. Credo che occorra essere umili nei riguardi del verso. Quello che le dico può sembrare molto personale e persino privato ma proprio perché so di essere una persona ambiziosa, allora cerco di essere molto rispettoso dei limiti.
FR
Leggendo i suoi versi non vi è traccia, almeno superficialmente, di un'attenzione per la filosofia o la psicanalisi che per la cultura europea del secolo scorso sono stati due riferimenti quasi obbligati, anche per i poeti, insieme alle nuove scienze del linguaggio. Quale è il vostro atteggiamento nei confronti di queste discipline.
DW
Bene, lei mi scuserà se farò un paragone osceno nel rispondere a questa domanda. Fare poesia vuole dire entrare volontariamente in una prigione. In questa prigione si aggirano un sacco di teorie accademiche, c'è la semiotica e altro, la prima cosa da fare è preoccuparsi di non farsi inculare. Lei mi perdonerà, ma quello che voglio dire è che se uno sceglie di spendere la propria vita da poeta deve stare bene attento a non lasciarsi invadere e deviare da teorie, da giudizi competitivi, da invidie e ambizioni, ma deve piuttosto cercare di pensare sempre che ciò che sta facendo non è per se stesso, ma per cercare qualcosa che il poeta crede esista e che si chiama poesia. E' una strada lunga e bisogna stare attenti a non lasciarsi corrompere, vuol dire che bisogna credere nella moralità che il poema esprime direttamente in sé. In questo senso si può dire che vi è una forte approssimazione con l'umiltà del sentimento religioso, in altre parole in un certo modo il poeta è vicino al sacerdote, al prete, al monaco; in un altro senso il poeta deve rifiutare la pura conoscenza, l'eccessiva confidenza con le persone e le teorie sulla poesia. In ultima analisi quello che il poeta fa è creare il poema, questo è il suo compito ed è un compito arduo, prima di riuscire ad arrivare a questo occorre superare molti ostacoli terrificanti. Fare i conti con l'ibrido, con il maturare lento dell'opera nella testa... bisogna tornare al non sapere, all’ignoranza e questo è molto difficile da fare nel contesto contemporaneo dove ci sono molte teorie, molte reputazioni... vede quello che sta succedendo alla letteratura francese, per esempio...lì danno troppo ascolto ai critici, ai dibattiti universitari, alle parole dei dotti. Bisogna tornare a dire che la poesia è una sorta di miracolo cui si deve una devozione quasi religiosa.
FR
Voi avete usato le parole sacerdote, religione; ma si possono sostituire queste parole con altre, tipo sciamano, divinità, sacro ecc?
DW
Vede, la parola sacerdote va per me usata in riferimento a William Wordsworth; a me piace dire sacerdote della natura perciò la devozione nei confronti della natura è ciò che io intendo quando uso la parola sacerdote e mi riferisco in primo luogo alla natura organica perché senza di essa nulla potrebbe esistere, l'ossigeno l'abbiamo dalla natura organica. Non importa quanto siano abili o famosi, ma ci sono scrittori che tendono a diventare cinici, è questo che rischiano quando si siedono alla scrivania e cominciano a scrivere poesie. Invece bisogna tornare a una innocenza radicale. Molti poeti sono complicati e sofisticati, ma proviamo ad andare al nocciolo della loro opera... Donne, Rimbaud, Auden, Eliot, Montale, quando arrivo al nucleo radiante della loro poesia io un po' mi preoccupo.
FR
Voi avete detto sacerdote della natura e nella vostra poesia il rapporto con la natura è davvero essenziale. Ecco, cosa ne pensate di questo continuo forzare, da parte della scienza, i limiti naturali e di creare sempre più una seconda natura artificiale. Mi riferisco a tutto il problema delle biotecnologie, del transgenico ecc.
DW
Penso che si tratti di un'attitudine faustiana. Credo che occorra ritornare a provare la paura primordiale. Dobbiamo in un certo senso ritornare al rapporto con la divinità, con dio, accettare che vi sono dei limiti alla conoscenza umana. Le idee prometeiche o ulissiche, ciò che spinge a ripartire ancora una volta da casa per raggiungere altre mete... tutto questo è stato vero, fa parte della nostra storia, non può essere negato ma occorre avere la consapevolezza che quanto più si prosegue su questa strada tanto più tutto diventa più pericoloso. Si può andare avanti solo accettando il compiersi di un tragico destino...Tornando alla paura, tutto questo che le dico è vecchio quanto il mondo, l'ammonimento a non superare certi limiti è antico, ma si tratta di un atteggiamento opposto a quello della ricerca scientifica che richiede di andare sempre avanti, di superare le barriere. Andare avanti significa scoprire che nulla è intimo.
L'esplorazione della scienza in sé va bene, ma solo se si ha un'idea tragica di questo destino. Quello che voglio dire, in sostanza, è che se decido di compiere un certo passo devo assumermi la responsabilità di sapere che cosi facendo qualcosa di tragico potrebbe accadermi; se invece si va avanti senza assunzione di responsabilità, neppure nei confronti di se stessi, allora non va bene. E' un atteggiamento antico anche questo... si dovrebbe sapere che non si diventa dio grazie a quella conoscenza: questo è un concetto basilare del mondo greco, ma anche del Medio Evo. Purtroppo siamo andati così avanti che stiamo perdendo quest'idea fondamentale e il potere dei poeti sta nella capacità di indicare questo destino tragico cui si va incontro. Questo non significa bloccare la ricerca scientifica ma fornire o tornare a fornire quel pensiero fondamentale che le dicevo, che l'idea di hybris, che è parte dell'idea di tragedia, dovrebbe essere investigata essa stessa.
FR
Mi sembra che piuttosto che la ricerca scientifica in sé voi siete preoccupato dell'ideologia di tipo ottimistico che si accompagna alla ricerca. E' cosi?
DW
 Quello che voi dite è forse un po' forzato. L’esperimento scientifico in sé non può essere giudicato in termini di moralità esterna a esso: da questo però scaturisce anche l'idea di potere fare qualsiasi cosa in nome della scienza. Quello che io affermo è che bisogna ritornare a una specie di formula medioevale che sappia contemplare la conservazione di certi aspetti dell'umanità. Il ruolo del poeta è proprio quello di rendere consapevoli del destino tragico. Quello che mi stupisce è che non c'è scrittura tragica intorno a questi temi, ciò che abbiamo è una specie di esaltazione superficiale, specialmente in opere teatrali o cinematogratìche: ciò che ci manca è la dimensione del tragico nel suo senso più alto. La scienza non può avere nessuna idea del tragico. E’ chiaro che se tutto viene misurato come esperimento diventa un bene clonare le pecore o addirittura gli esseri umani, ma io non sono affatto sicuro che la direzione della scienza debba essere questa... Capisco che dire ciò possa suonare ingenuo e persino stupido, ma è quel genere di stupidità che ci può salvare, quella paura che ti fa dire no, là non andarci, non fare questo ecc. I grandi poeti tragici in fondo hanno fatto ciò e io sono stupito che nonostante tutti gli orrori del ventesimo secolo noi abbiamo una mancanza di grandi scrittori tragici, non è forse strano questo?
FR
Sì, è strano, questo ha a che fare con il positivismo... con questa idea del progresso indefinito che è tipico della cultura occidentale...Torniamo a quello che lei diceva sul ritorno a una attitudine medioevale... A quei tempi era il sacerdote, uso anch'io questa parola nel senso in cui lei l'ha usata, a rappresentare questa idea del tragico, insieme ai grandi poeti. Il problema nostro è di domandarci chi possa farlo oggi: ancora i poeti voi dite, diciamo gli artisti in generale...
DW
Sulla parola arte e artisti non saprei, prenda la musica, è ottimistica in sé... Vediamo, le propongo un gioco accademico. Chi pensa lei abbia convogliato su di sé il senso del tragico nel 900; non dell'assurdo, non sto pensando a Beckett che trasforma il tragico in assurdo, così come altri del pensiero negativo, lonescu... Forse qualcuno c'è, Mandel'stam... e poi?
FR
Celan forse...
DW
 Sì però per Celan bisogna considerare che il suo punto di vista tragico dipende strettamente dalla sua esperienza... Domandiamoci per esempio perché non ci sono grandi tragici negli Stati Uniti: secondo me dipende dalla tecnica. Quando si pensa a un grande poeta americano si pensa subito a Whitman, che era un grande ottimista. Venendo a tempi più vicini, anche un Frost a me non pare rappresenti una forte idea del tragico. Questa del tragico è una questione che ossessionava anche Yeats. Il tragico, fra l'altro, ha a che fare con il suo opposto: nei grandi poeti tragici, al fondo c'è un nucleo di gioia. Bene, forse in questo senso la letteratura dei Caraibi ha qualcosa da dire, perché il senso del tragico ha al fondo qualcosa di gioioso, solo che questo si è trasformato spesso in una sorta di protesta nera e non stiamo parlando di questo ma di qualcosa che sa elevarsi a livello del terrifico e del sublime.
FR
E Kafka?
DW
Credo ci sia una differenza con quello che davvero raggiunge la sublimità della tragedia. Kafka, almeno quello che ho letto io, si è fermato anche lui a un certo punto.
FR
Nella Grecia antica la tragedia fu abolita, fu Pericle a farlo perché la tragedia non aveva soluzione, la catarsi, infatti, non lo è. Pericle disse che bisognava mettere fuori dalla polis un genere che non suggeriva soluzioni e lo disse in nome del governo della città e della sua stabilità. In un certo senso nella Grecia antica furono la politica e il controllo politico ad abolire la tragedia. Forse sta accadendo o è accaduto qualcosa di simile anche nel mondo contemporaneo occidentale.
DW
Sì, nei sistemi dittatoriali il cosiddetto bene comune detta delle regole molto restrittive, dice alle persone cosa è bene e cosa è male, mentre nella tragedia tutto fluttua, non c'è stasi. Sì forse c'è qualcosa di tragico nella legge dello stato, nella regola statuale. Il problema è che la legge dello stato viene obbedita, mentre non esiste più un potere diverso. Fra un dittatore e un buon papa scelgo quest'ultimo, sempre che non diventi un dittatore anche lui, perché se una religione diventa a sua volta autoritaria allora non va...
FR
Voi state dicendo che fra sentimento religioso e governo laico dello stato ci deve essere un certo bilanciamento di poteri... questo ai nostri tempi avviene forse soltanto nel mondo islamico, forse è in quel mondo che troviamo oggi un senso del tragico che qui manca.
DW
Sì, quello che lei tocca è un punto molto interessante.