domenica 20 settembre 2020

LO SGUARDO LATERALE DI PHILIPPE DAVERIO

Di Franco Romanò

L’ultima volta che mi capitò di assistere a una conferenza di Philippe Daverio, fu all’Ambasciata italiana di Berlino, che ospitava insieme a lui l’artista Giorgio Milani. L’occasione era solenne: l’anniversario del rogo dei libri, il 9 maggio del 1933. I due ospiti italiani erano stati invitati dai tedeschi. Daverio, nel suo primo intervento, rimase nei binari di una presentazione che doveva trasmettere un messaggio culturale e politico basato su tre cardini: i roghi di libri sono sempre esistiti, la collaborazione fra Italia e Germania è un caposaldo dell’Unione Europea, la memoria storica è un fattore decisivo. Nella replica finale, seguita a inutili domande rituali e a qualche altro intervento formale, Daverio alzò lo stile della comunicazione e i suoi contenuti. Mettendo alcuni opportuni accenti sull’opera di Milani, che forse erano sfuggiti ai più, criticò il culto agiografico della memoria, sottolineando la duplicità della grande arte, che, nel dare una forma espressiva alle opere, finisce per abbellire anche l’orrore. Il sottinteso era che Milani si collocava altrove. Infatti i suoi poetari e in particolare tre di loro e cioè  Poetario di fine Gutemberg, la torre di Gutemberg e  Jesus poetaro crocefisso di fine millennio, sono sculture costruite con vecchie lettere di legno che, inchiostrate, servivano poi alla stampa. Opere scabre, con le quali Milani conserva il calco, l’impronta, non tanto il libro in sé, visto che l’epoca in cui siamo è post gutemberghiana e inflazionistica per il numero di troppi libri inutili che giacciono nei magazzini delle case editrici: quella di Milani, invece, è la conservazione di una matrice dall’inflazione del culto della memoria. Quella presentazione e anche la scelta di Milani, artista assai noto in Germania, mi sembrava incarnare molto bene la capacità di Daverio di avere sempre uno sguardo laterale, un pensiero decentrato. Questa particolarità gli veniva dall’essere un uomo del ’68, che possedeva già in quegli anni, tutta la vastità di una cultura borghese ereditata dalla famiglia e dal suo milieu sociale, cultura cui non rinunciava  - e quanto piacevole era fin da allora discutere con lui – ma di cui conosceva anche i limiti. La critica di massa sessantottina gli permise, non di rinnegare, ma di guardare a quel patrimonio in modo diverso, setacciandolo. È quello che ha fatto nelle sue trasmissioni – Passepartout prima di tutto – ma anche in altre conferenze più politiche: ne ricordo una sulla Cina, forse reperibile nell’archivio rai, quando nessuno capiva quale ruolo avrebbe avuto nel giro di pochi anni. Il suo non è mai stato uno sguardo specialistico da storico dell’arte, che cataloga e conserva, quanto piuttosto da intellettuale di massa di tipo nuovo, che sapeva scegliere e mettere in evidenza, spesso con ironia e leggerezza, mai in senso storicistico e tale atteggiamento chiama in causa ancora una volta la critica al culto memoriale astratto, anch’esso inflazionato e sempre più controproducente. Anche per questo, certi paragoni a ridosso della sua scomparsa mi sono sembrati paradossali, specialmente quando pensavano di rimproverargli quello che non ha mai voluto essere. Personaggi come Federico Zeri o Carlo Giulio Argan appartengono a un altro mondo della critica d’arte, precedente, un mondo però che ha fatto in fin dei conti della separatezza dalla cultura di massa la propria cifra. Si tratta di una scelta più che legittima, ma molto accademica e iper specialistica. Daverio si è mosso a valle di una critica di massa della cultura che richiedeva capacità trasversali, approccio da competenze disciplinari diverse, saper collegare fenomeni fra loro apparentemente lontani, ma anche l’ironica propensione a ridimensionare apparenti autorevolezze. Tutto questo, in definitiva, appartiene al meglio della cultura del ’68.

  

 

 

 

giovedì 6 febbraio 2020

“Un'epica gentile” un modo nuovo di guardare all’epica, di Gabriella Galzio


Pubblichiamo queste pagine critiche di Gabriella Galzio dal titolo "Un'epica gentile', un modo nuovo di guardare all'epica". Un contributo intorno alla poesia epica, cui questo blog è dedicato, che apre
altri percorsi di analisi. E' frutto di un suo lavoro in corso ed è stato oggetto di lettura e discussione nell'ultima giornata del suo salotto letterario. Ringraziamo l'autrice e invitiamo lettori e lettrici a intervenire con i loro commenti.



 Innanzitutto una questione di metodo: la teoria deve poter scaturire dalla prassi della versificazione, altrimenti rischia di essere ideologica, pertanto ho provato a scandagliare i versi del poemetto di Rabissi “Di signoria e servitù, la mutazione che prende avvio dal desiderio”, non solo per dialogare con la poesia di Rabissi e con il commento di Romanò, ma per tentare di dare un contributo alla più ampia e complicata questione dell’epica nella poesia contemporanea che anche a me sta a cuore come si potrà evincere da alcuni miei versi conclusivi. Dare un contributo non necessariamente vuol dire avere pronte delle risposte, anzi può significare porre domande, avanzare dubbi, rimettere in discussione quei fragili punti fermi faticosamente conquistati. 
E vorrei partire da un distinguo: poematico non è ancora epico. Nel ‘900 la narratività in poesia si è fatta largo rendendo prosastico il verso, ma non tutta la poesia in prosa può dirsi epica. Cos’è allora che la distingue? Romanò parla di “tracce di un sentimento e di uno stile epici, l’incedere dei versi” e con questo accenna allo stile, al passo, al piede, al metro…accenna poi ai soggetti dell’epica, alla “storia con le sue imprese e le sue sconfitte, ma con la coscienza e la dignità di chi non rinuncia”, all’”eco delle lotte e delle imprese di questi soggetti storici”, dove “l’epopea collettiva…diventa epos a pieno diritto”. Sottoscrivo. Tutto questo fa parte dell’epica, quando si lotta, si combatte, allora facciamo ingresso nell’epica. E vorrei anche precisare - e lo affermo alla luce dei miei versi - che non ritengo necessario un soggetto antagonista contro cui combattere, che si può lottare per un’utopia, per un amore, per morire alle trasformazioni e rinascere. E certo, bisogna vincere la fatica, la paura, il dubbio, e allora bisogna combattere. Ma veniamo alle “Questioni di stile”. Romanò afferma che “l’epica ruota intorno  a…una metrica, a uno stile”. Ora sono d’accordo sul fatto che “l’epica classica non sia un orizzonte insuperabile…/_..._/ …i generi non sono statici e non lo è neppure l’epica”, ma stento ad essere d’accordo quando afferma: “Esametri e anapesti non possono appartenerci oggi, perché hanno il passo degli eserciti e degli eroi, battono il piede sul campo di battaglia e portano su di sé il peso di una società patriarcale da cui abbiamo cominciato a distanziarci.” Perché temo che qui si scivoli in piena formazione reattiva, anapesti no per non avere il passo degli eserciti, così, insieme all’acqua sporca (gli eserciti), buttiamo via anche il bambino (gli anapesti). Buttiamo via anapesti, dattili, giambi, trochei e avremo buttato via i ritmi base della musica della poesia! Quei mattoncini con cui si costruisce la metrica, quei piedi che danno il passo al verso, che conferiscono l’incedere, ora grave, solenne, ora squillante, martellante persino dell’epica, o gentile, leggero del registro epico-lirico… Ma tanto è vero che ciò non è possibile, che proprio i versi di Rabissi lo sconfessano.
RABISSI Qui, infatti, abbondano i ritmi dattilici, fino all’esempio di verso dattilico più compiuto che recita “fabbriche morte deserti affanni di uomini e donne” (e che ricorda l’esametro dattilico, composto da 5 dattili + 1 trocheo), e dove non mancano svariati attacchi anapestici (che in fondo sono dattili specchiati) come “Si battevano ancora…” o “di lavoro è un pianeta…”, e dove non manca nemmeno la dialettica tra ritmi discendenti/ascendenti di dattili e anapesti come ad es. nei due versi susseguentisi “…lirici trasumananti si può (intonazione discendente)/ misurare lo scarto se c’è…(intonazione ascendente)”; e dove soprattutto non manca l’abbinamento di ritmi d’intonazione affine come ad es. dattilo e trocheo, vedi il seguente verso “l’hanno sepolto, quanto è rimasto dall’abbuffata” ( ciascun emistichio composto da 1 dattilo + 1 trocheo); in particolare appaiono frequenti gli attacchi -  quasi si direbbe - di adonio (1 dattilo + 1 trocheo) nella parte centrale del poemetto quando rispetto al lavoro servile viene ammirata la naturale perfezione del lavoro animale “Che perfezione…”, “striano il cielo…”, “fosse un lavoro…”, “sazie abbandonano…”, “fanno i castori del loro ingegno…”.
Un’ultima annotazione riguarda la seguente affermazione di Romanò quando dice che nella seconda parte del poemetto “Il metro gira intorno al doppio settenario, seppure con movimenti interni ad allungare”. Francamente fatico a concordare con questa affermazione, essendo i pochi e tra loro slegati doppi settenari - (2 su 16) nella strofe presa in esame e (5 su 181) sparsi complessivamente nel testo - di natura troppo casuale per essere riconosciuti come cardini strutturanti un movimento. Quasi che il respiro dei versi di Rabissi aspirasse a un’altra ampiezza, a un’altra libertà…del resto, se il doppio settenario sarà la sua misura, sarà lui stesso a forgiarla.
Riassumendo, nel testo di Rabissi riscontro piuttosto una versificazione libera, di ampio respiro ma irregolare, con frequenti spezzature e cesure del verso in emistichi (che ricordano Pavese, il cui verso però è regolare) e componenti ritmiche ricorrenti – proprie (come rilevavo prima) del registro epico classico - che conferiscono un andamento disteso e meditativo, favorendo la discorsività con tono pacato e talvolta grave nel narrare le vicende travagliate del mondo contemporaneo.
Questa breve disamina mostra come i ritmi epici siano tuttora vivi e attualissimi anche quando non sono più al servizio “degli eserciti e degli eroi”, ma al contrario sono irraggiati da una vis combattiva necessaria a uscire da quella “società patriarcale da cui abbiamo cominciato a distanziarci”. Allora i nuovi soggetti storici di questo epos potranno essere i nuovi schiavi della globalizzazione in cerca di liberazione dal lavoro servile, o le donne che intraprendono la discesa agli inferi andando incontro al rischio di una profonda trasformazione. La musica epica allora non sarà più solamente l’espressione di un nuovo linguaggio, ma anche la forza interiore di un nuovo coraggio.
PAVESE Ma se parliamo di epica nuova, almeno in Italia, non possiamo non ripartire da Pavese che in pieno ermetismo e predominio della lirica inaugura la “poesia-racconto”, dal verso cadenzato (“cadenza enfatica” come l’autore stesso annotava), dall’ampiezza pacata, di lunga lassa narrativa. Quello di Pavese è un metro con andamento cantilenante pressoché monotono (se non fosse per cesure e spezzature) che contribuisce alla resa epica di lenta, tranquilla affabulazione. Concordo con Curi che l’impressione complessiva di uniformità costante è garantita dall’assoluta prevalenza del piede costituito da due sillabe atone più una tonica; tenendo presente che a Pavese, poi, non tanto interessava il metro quanto il ritmo, con una pronunciata inclinazione per quello ternario anapestico. “Con Pavese – scrive Menichetti nel suo Metrica italiana – il numero degli anapesti diventa variabile da verso a verso, quasi sempre superiore a tre, in modo da assecondare l’andamento epico-lirico del testo.” Ed è sempre Pavese a inaugurare i nuovi eroi e le nuove eroine della moderna epica (prima di Pagliarani): contadini, contadine, prostitute, vecchi, ragazzi… un mondo di personaggi medio-bassi, sprovvisti di contorni tragici e della protezione di divinità, spesso socialmente o psichicamente anomali, che corrisponde a fondare un moderno epos borghese-contadino che risulti congruo alla sensibilità della società moderna e che Pavese preferirà chiamare “poesia-racconto”. Personalmente, devo a Pavese quel ritmo cadenzato dei versi che è filtrato nei miei primi passi di poesia per i vicoli di Perugia.
WHITMAN E veniamo a Whitman. In relazione all’epica scrive Romanò: “Un nome si impone su tutti, Walt Whitman, la cui versificazione libera (ma non sempre), mantiene dell’epos l’incedere del verso, l’oralità implicita, il passo martellante a volte, in altre più solenne. Ebbene, Whitman, è proprio il bardo di una diversa epicità della versificazione, costituendo un modello lontano dalla metrica classica, ma a pieno titolo interno a una visione allargata dei canoni…”. E qui torniamo al distinguo iniziale: il Whitman poematico è anche epico? Secondo la tesi di Pavese su Whitman, Foglie d’erba non sarebbe poesia epica, ma volontaristica e programmatica “poesia del far poesia”. Secondo Di Girolamo, nei versi liberi e lunghi di Whitman i ritmi anapestici (presenti in Pavese) sarebbero assenti. Viceversa Manganelli, che riprende Hopkins, così parla del ritmo whitmaniano: “Hopkins è anche affascinato dal…ritmo; quei versi lunghi, molto lunghi, e irregolari. Qualcosa che sembra sul punto di decadere a prosa ritmata; ma anche una vocazione all’orecchio per la cadenza degli anapesti: «ben s’addice alla lingua inglese far sì che l’accento cada sempre al termine del piede»: e Hopkins cita un verso che pare emblematico…«or a handkerchief designedly dropped»….Come maestro verbale sa modulare versi di suprema perizia – e intendo per l’appunto altissima consapevolezza tecnica: «Whispers of heavenly death murmur’d I hear/ Labial gossip of night, sibilant chorals».” Questi ultimi due versi sono senz’altro un esempio di ritmo dattilico che oltre la spezzatura prosegue in cadenza anapestica. Personalmente, tuttavia, ritengo il temperamento di Whitman troppo vitalistico e prorompente per non essere il suo stile fondamentalmente vocato alla libertà e alla estrema irregolarità. Predicatore itinerante o “bardo profeta” - come da lui stesso dichiarato - della democrazia e della religione, incline al “poema-evangelo” della fratellanza, dell’amore e dell’anima, è un esuberante temperamento oratorio e certamente poeta poematico, ma quel che mi suggerirebbe di propendere per il tono epico della sua poesia è la sua vis combattiva, vibrante: «…inauguro una religione e scendo nell’arena,/ (e può darsi sia io destinato a emettere il grido più forte, gli assordanti clamori del vincitore…)», moderno bardo «per qualche eroe, oratore o generale…per qualche audace ribelle» di una epopea eroica e trionfante: «io, esultante d’essere pronto per loro, farò sgorgar canti più forti e più superbi di quanti mai sulla terra s’udirono.// Comporrò canti della passione, per aprir loro un cammino…». A questo punto la poesia di Whitman meriterebbe davvero uno studio più approfondito della sua metrica, a mio parere imprescindibile per valutare se la sua vis combattiva s’incarni fino in fondo nei ritmi dell’epica.   
ROMANO’ Dal cammino di Whitman al “diverso cammino” di Romanò, nel poemetto Veglia Europa (p.70). Qui “Un diverso cammino”, che è già un anapesto, prosegue il suo incedere a ritmo ternario fino ai versi finali “non ancora cultura (anapesto)/ al passo claudicante di sempre (ritmo dattilico)”, laddove nella parola “claudicante” il valore semantico e quello ritmico dattilico coincidono, rendendo il senso epico di una faticosa conquista.
Quanto al poemetto Il ritorno, la struttura metrica di riferimento è endecasillabica, dove agli endecasillabi si alternano metri anch’essi dispari e dunque dinamici, quali novenari e settenari. Ciò che rende epica la versificazione sono i frequenti attacchi anapestici che imprimono un andamento narrativo disteso. In particolare vorrei segnalare una sestina, interessante per la sua figurazione circolare, in cui la metrica dell’ultimo verso ripete la struttura del primo verso: “Quando fui pronto|| me li vidi accanto/…/ prima che il freddo ||ti travolga e il peso.” In entrambi i versi, endecasillabici, abbiamo la presenza di due emistichi, il primo dattilico e il secondo anapestico, specchiati (come già abbiamo riscontrato in Rabissi).
KEMENY Qui vorrei solo ancora accennare al poema epiconirico di Tomaso Kemeny, La Transilvania liberata, cui dedicare in futuro un maggiore approfondimento per diverse ragioni. Tanto per cominciare per la sua struttura conchiusa di poema, con prologo, epilogo e dodici canti, e la domanda che solleva se oggi sia ancora possibile scrivere un intero poema o se, come ipotizzava Pavese, ciò non sia più possibile, dovendoci accontentare di una poesia-racconto. Poi, per l’evidente riferimento (contenuto nel titolo) alla tradizione, alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che pone l’interrogativo non solo in che rapporto stia il poema di Kemeny, se in continuità o discontinuità, con la tradizione epica, ma più in generale quanto l’epica attuale sia erede della tradizione classica o quanto da essa si discosti e possa dirsi epica nuova. Quanto alla metrica -prendiamo ad es. il Prologo - tendenzialmente endecasillabica ma non regolare, è un alternarsi di ritmi anapestici e dattilici che conferiscono solennità al canto. E veniamo infine allo spirito del poema, che non certo può dirsi epica di conquista, quanto epica di liberazione: dalla Città senza nome, infatti, devastata dagli invasori (tutte le città della Transilvania hanno perduto il loro nome magiaro), l’eroe ignoto si prepara a combattere gli invasori di tutti i Paesi e di tutti i tempi.     
GALZIO Per concludere, desideravo aggiungere che il lavoro sin qui svolto non poteva non sollevare in me alcune riflessioni sul carattere epico di parte importante dei miei stessi versi, di cui vorrei proporre alcuni esempi.
1)Quando dicevo che la musica epica sarà la forza interiore di un nuovo coraggio, pensavo alla forza emergente delle donne, alla poetica delle Madri come fonte di una nuova civiltà che attraversa il mio La discesa alle Madri, pensavo alle Madri di Plaza de Mayo cui dedico il ritmo anapestico “un tamburo battente sulla piana” di “Madre corale” (dal mio La discesa alle Madri, p. 25), pensavo a quanto l’amore dia la forza di combattere…
«Sarò per te madre corale, correrò nel fuoco
non avrò tentennamenti, infingimenti
sarò la lotta libera, il campo incendiato
la frusta del grano nell'oro delle tempie
sarò un pensiero limpido, urgente
un tamburo battente sulla piana
sarò donne che scendono in scenario aperto
donne che avanzano sorgono frontali
sarò guerra per guerra scatto in combattimento
profondità di quinte, teatro naturale»
2)A proposito del doppio settenario (o alessandrino) ricordato da Romanò, nel mio “Ratto di Kore” (da Ishtar, p.66), l’incipit della poesia si è mostrato incline a uno stile regolare e coeso della versificazione, la prima quartina essendo composta interamente da doppi settenari che strutturano il testo conferendogli un incedere epico-lirico grave e solenne, e dando vita a un’epica della discesa agli inferi, metafora dei grandi processi di morte, trasformazione e rinascita:
“Scesi alla luce, perla, che allaga d’acqua il viso
Pronto a ritrarsi, d’erba, giù per il folto ventre
D’ossa e radici, intrico, soffice d’ocra e sangue
Passi di terra e oro incedere verso un trono”
3)In associazione al cammino della nazione americana di Whitman, al “diverso cammino” di Romanò, e a quel cammino che forse più in generale potrebbe rivelarsi un topos dell’epica, a me è tornato in mente il ritmo epico-lirico di un altro cammino, trasmutativo, personale e collettivo presente in Ishtar (da “Oro nero”, p.69):
“datti un tempo, datti un cammino                 (dattilico)
verticale e fra uguali                                        (anapestico)
porta a un incedere di perle e fango                (dattilico)
intere popolazioni ai loro templi…”
o ancora (da “Veste alata”, p.95)
“E un cammino di donne e piume                  (anapestico)
discende l’assolato versante dell’aria…”         (anapestico)
Se nei primi quattro versi il senso di una missione spirituale si esprime con tono grave e solenne, quasi processionale, negli ultimi due versi il ritmo anapestico epico-lirico ha la leggerezza della visione. Anche qui l’epica è foriera di “un’utopia di liberazione dell’umanità intera”, ma usa un tono leggero, gentile, lirico, e per questo amerei chiamare la mia epica “un’epica gentile”.
IN SINTESI In estrema sintesi, quello che mi sento di affermare sul carattere distintivo dell’epica oggi, a partire dai pochi esempi di autori presi in esame, è quanto segue: che si sia perso sì l’andamento metrico regolare di una forma chiusa, ma che non si sia perso il più generale andamento ritmico ternario fondato su dattili e anapesti. Altrimenti ricadremmo nella più indifferenziata narratività di una versificazione in prosa.
Insomma ciò che fa la differenza è la musica.