mercoledì 28 settembre 2022

Intorno a una poesia epica dialettale: Giuseppe Cinà ci introduce al suo ultimo libro "L'alburu nostru"

 



Sul versante della poesia dialettale, Giuseppe Cinà si inserisce nel nostro dibattito sull’epica. A ridosso dell’uscita del suo secondo libro L’àrbulu nostru ospitiamo i suoi versi, sono introdotti da una riflessione che attraversa ragioni storiche della sua poesia dialettale e epica che fanno tutt’uno con la sua esigenza soggettiva di dare voce, ritmo, tono alla natura che lo ospita.

 

 Cari Franco e Paolo

(e cara Gabriella, che dal tuo salotto alimenti la circolarità delle ns voci)

da tempo avevo voglia di scrivervi queste riflessioni, da dopo la presentazione di “Lucy, reperto A.L. 288-1” e la lettura del vs ‘manifesto’ Diepicanuova.

Perché? Perché anche io avevo avvertito nella poesia la “constatazione dell’esistenza di un ‘sentimento’ dell’epica “, ma l’avevo avvertito in primo luogo in quella dialettale siciliana. Certo, avevo letto, come molti di noi a partire dai vent’anni, Pavese e altri autori filo-epici, ma non ne avevo avuto chiara consapevolezza. Così per Whitman e Ginsberg, che per me erano pure esplosioni della modernità, come pure Dylan (so di star citando tre modernità molto diverse…) e ricollegarle al genere epico, per me confinato al pre-moderno, mi era impossibile.

Ho superato questo limite grazie al vs posizionamento critico e teorico (“Il bisogno di lasciarsi alle spalle i giochi linguistici … per rivolgersi alla ricerca di una poesia che torni a guardare alla Storia …riscoprendo anche la possibilità di narrazione in versi, ci sembra nello spirito dei tempi”), peraltro non isolato all’interno dello stesso ‘salotto’ Galzio. Vi sono dunque debitore per questo inquadramento cognitivo, perché la vs riflessione ha dato forma alla mia, in particolare con riguardo alla poesia dialettale.

Sappiamo che i dialetti raccontano la vita attraverso le parole dei fatti, delle cose, del mondo fisico e ciò li porta a guadagnare in rusticità e a perdere in leggerezza, ma sappiamo anche come i più rustici accenti siano capaci di sprigionare cadenze musicali ed espressioni la cui pregnanza non trova eguali nella lingua colta. Prendendo a riferimento il dialetto siciliano, che più conosco, la cosa è ben sintetizzata da Bufalino, quando nota che “Per sua virtù (del dialetto, ndr) anche il minimo evento della vita di relazione, come se avesse mangiato miracolosi spinaci, s’inietta di sangue, attinge energiche carnalità, diviene lietamente fescennino…”; e da Sciascia, quando rileva che ogni volta che il dialetto s’impenna verso la concettualizzazione, l’introspezione o il linguaggio scientifico, eccolo ingessato alla necessità di ricorrere al lessico e alla sintassi dell’italiano.

Cosa succede quando esso si volge alla poesia? Succede che alla permanenza dei suddetti caratteri si associa una scrittura dal forte accento narrativo e popolare che, in quanto tale, si presta molto all’espressione di una valenza epica. Ne aveva dato dimostrazione Teocrito, il più importante poeta siciliano dell’antichità (… scrivendo in greco), con i suoi Idilli, opera a tema bucolico ma di chiaro accento epico.

Questa valenza non è riscontrabile nella poesia colta fino all’avvento di Antonio Veneziano (1543-1593) autore di punta del petrarchismo in Sicilia, ma in versione dialettale. Egli tuttavia dimostra la completa maturità della lingua popolare nell’ispirare la poesia colta, dando un’ulteriore legittimazione lirica al volgare siciliano (e ai volgari più in generale) e favorisce il successivo sviluppo di un percorso parallelo tra poesia in lingua e poesia volgare. Ne consegue che dal ‘600 quest’ultima, senza più il condizionamento del petrarchismo, si apre a un più libero uso dei propri registri espressivi. Così tra poesia amorosa, encomiastica, burlesca, bucolica e quant’altro, fa la sua comparsa quella epica, sostenuta anche dalle numerose traduzioni delle opere classiche, da Omero a Virgilio a Tasso ecc., operate fino ai giorni nostri. Tra i tanti autori che incrociano la poesia epica va annoverato Giovanni Meli (1740-1815) con la sua Buccolica (1787), ma in questo come negli altri autori segnati dall’estetica arcadica la forma epica non sempre è riflesso di contenuti di effettiva valenza storica.

 

Nel primo ‘900 le cose cambiano significativamente. Con l’irruente rivoluzione verista, promossa sul piano linguistico e dei contenuti da Alessio Di Giovanni (1872-1946), vengono fuori i grandi interpreti delle “voci del feudo”, la cifra dell’impegno civile (e anche politico in alcuni casi), la ‘scoperta’ del mondo degli oppressi. Tutto questo porta naturalmente a conservare e anzi ad affinare l’accento epico. La poesia siciliana volta pagina, abbandona il verso sdolcinato e artificiale dell’Arcadia, i falsi idilli agresti e scopre il mondo nella sua verità, in una terra di bellezza, lavoro e sacrifici, sentimenti, dolore e religiosità. Diversamente dalla prosa verista, che opera le stesse scoperte ma resta chiusa in una visione pessimistica, questa poesia postula il cambiamento e vi contribuisce a cominciare dal riscatto della lingua nativa - e dunque della primigenia cultura di un popolo – anch’essa indebitamente espropriata nel processo di modernizzazione. Tutte queste istanze postulano una nuova consapevolezza della Storia e la richiesta di un nuovo posto nella società nazionale per il popolo del dialetto. A partire da questa nuova tematizzazione della Storia e dall’uso di una lingua riconcepita sotto il segno della semplicità e della verità delle cose («Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.») non si poteva non accedere a un registro epico (nel caso del Di Giovanni a partire da Maju sicilianu, 1896 a Lu fattu di Bbissana, 1900, fino a Voci del Feudo (1938).

Da qui una serie di autori ed esperienze che, per tutto il ‘900, hanno fatto ricorso al registro epico in base a condizioni sia di fatto (dei caratteri linguistici del siciliano) che di scelta poetica, così riassumibili:

- adozione di una scrittura semplice, oggettiva e narrativa

- attenzione al rapporto tra l’uomo e la terra e all’esaurirsi di questo legame

- sensibilità alla epicità del quotidiano

- gli eroi non sono i vincitori ma i vinti, non i padroni ma gli schiavi di un sistema sociale ed economico arcaico e feroce: zolfatari, contadini, pescatori, tutti gli ultimi insomma, che vogliono affrancarsi dall’atavica arretratezza. E non si parla qui della generale opposizione operai/capitale propria della modernità otto-novecentesca ma di una opposizione posta su un piano di sottosviluppo pre-moderno, tra regnicoli e latifondisti. In sintesi, tutt’altro che una poesia dove l’autore celebra l’epica del proprio ombelico ma una che guarda diritto alla Storia in quanto soggetto collettivo.

 

Questo è quanto accade nella poesia ‘riformata’ dalla rivoluzione - teorica e applicata - operata da Alessio di Giovanni a partire dal primo ‘900.

Detto ciò la poesia dialettale è stata caratterizzata anche altrimenti – il registro lirico ha comunque mantenuto una sua presenza pregnante dando voce ad altre forme - ma che i fondamenti della rivoluzione che mezzo secolo dopo sarebbe stata chiamata poesia neo-dialettale, sono in grande misura ascrivibili al registro epico maturato nella corrente verista. Accanto al Di Giovanni l’esponente più illustre di questa rinascita, che conclude questa esperienza operando fino alla fine del secolo, è Ignazio Buttitta (1899-1997). Con esso il registro epico assume la più alta formulazione. Da Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali (1956), alla raccolta Lu trenu di lu suli (1963), e dalla raccolta La paglia bruciata. Racconti in versi (1968), fino a Colapesce (1986, la sua è una straripante incursione nella Storia e nell’impegno civile capace di mettere in ombra una nutrita schiera di altri importanti autori che hanno variamente frequentato lo stesso campo espressivo, da Santo Calì a Salvatore Camilleri, Nino Orsini, Paolo Messina, Giuseppe Giovanni Battaglia, per non citarne che alcuni.

 

Venendo ad oggi penso di poter affermare che gli accenti epici dei neodialettali siciliani del ‘900 si sono smorzati visibilmente nell’ultima generazione a vantaggio di un più articolato set di registri lirici. Questo fatto, più che a un limite proprio agli autori, oggi in maggioranza anziani, impegnati a relazionare il dialetto “al nuovo che chiede di essere nominato”, mi pare sia da imputare ad almeno due fattori: 1) alla crescente alienazione sociale in atto, come se il richiudersi delle esperienze di relazione impostoci dal Covid - vissuto come un’emergenza - fosse in realtà una condizione che vivevamo ormai da decenni senza accorgercene, drogati dalle immagini pubblicitarie di uno stile di vita che non è la vita, ma una disinformatja che ci tiene prigionieri di un Truman show; 2) all’obiettiva difficoltà a trovare le parole nuove atte a mettere in dialetto la Storia di oggi. Prendiamo ad esempio i delicati eppur densi versi di Gabriella Galzio “Oggi il mondo appare franto/ ed io, franta con lui/ tuoni in lontananza …// Solo ieri era la festa/ in un tripudio di luce/ un grido di poiana inaccessibile…// Ora è un metallico bagliore/ avvento di una mutilazione// …” (Breviario delle stagioni, p. 32). Si potrebbe dire in siciliano? Si, ma sono dubbioso sulla qualità dell’esito. Ancora più difficile se volessimo fare questa operazione con un brano dall’ultimo lavoro di Adam Vaccaro (Google- Il nome di Dio).

Scriveva Di Giovanni nel 1896 (in Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, Chiurazzi, Napoli): “Il poeta dialettale colto deve avvalersi del natio dialetto, deve spirarne l’alito particolare” senza “dimenticare la sua condizione, i suoi studi…”. In altri termini la poesia dialettale dei poeti colti doveva mantenersi fresca, genuina, spontanea, ma di una “spontaneità riflessiva”, riflessa; doveva, cioè, attingere alla poesia popolare ma non confondersi con essa. Questa operazione riuscì, con esiti più o meno alti, per tutto il ‘900, oggi risulta ben più difficile…

 

Quanto a me quello che vorrei aggiungere è come solo cammin facendo io mi sono accorto che nelle corde del mio racconto poetico (A macchia e u Jardinu, 2020) avevo una materia storica e che dovevo trattarla con la dovuta consapevolezza. Infatti era storia il passaggio dal medioevo alla post-modernità occorso tra l’esperienza di vita della Za Rosa, contadina, e quella mia che sono subentrato nel suo giardino da turista/contadino atterrato da Milano dietro alle sirene della natura e del mare; era storia il conflitto tra il selvaggio della macchia e il domestico del giardino; era storia l’uomo che moriva ammazzato per essersi trovato nel mezzo del passaggio da un terreno senza valore a uno a valore turistico; ed era storia anche quella di una giovane pianta di leccio che affrontava il futuro e le sfide della minacciosa incipiente antropizzazione.

Per contro questa consapevolezza è stata operante fin da principio nel secondo libro (L’àrbulu nostru), che si pone l’esplicito e ambizioso obiettivo di evocare un’epica dell’ulivo. Questo per dire come le vostre riflessioni sulla nuova epica mi abbiano positivamente stimolato e come ho posizionato le mie batterie di autore (scusate la metafora bellicista). Se e come io sia riuscito a tradurre questo in buona poesia è altra cosa (sta ai lettori dirlo). Io peraltro non mi sono posto l’obiettivo di fare una poesia epica, chè non era quello il mio problema, ma mi sono preoccupato di trasmettere un contenuto epico, come quando un padre vuole dire delle cose fondamentali a un figlio e per meglio farsi capire imposta il volume della voce, il ritmo, il tono.


Da L’àrbulu nostru/ Il nostro albero  (La Vita Felice, 2022)

estratto: tre poesie


Marinari
Sutta lu voscu scuru di àrbuli e màcchia
occhi nativi ammìccianu nìuri la navi
ca piriculusa s’appressa ammainannu li veli.
Silènziu di lu celu, silènziu di la terra
nna la contrura
di lu mari appinnicatu.
Di la navi ammaccatizza
occhi marinara cirnichìanu nna la costa
immòbili lu passaturi cu lu chiaccu paratu.
Poi a lampu e stampu, li vrazza li remi
li cumanni di lu ràisi,
na varca s’appressa a lu sbarcu.
Darrè lu timpuni li campisi, l’archi già tisi
l’ordini mpizzu a la lingua
li frecci chi talìanu ognuna lu so pettu.
Ma talè, di nfunnu a la varca mmeci di armi
rami d’alivu aìsanu li marinari in cerca di asilu.
Vennu mpaci o c’è mbrògghiu?

Marinai
Dal bosco ombroso di alberi e macchia
occhi indigeni scrutano truci la nave
che minacciosa s’avvicina ammainando le vele.
Silenzio del cielo, silenzio della terra
nel pomeriggio
del mare appisolato.
Dalla malconcia nave
occhi marinari cercano nella costa
immota il passaggio con la trappola pronta.
Poi è un attimo, le braccia i remi
gli ordini del comandante
una barca è prossima allo sbarco.
Dietro la duna gli arcieri, gli archi già tesi
l’ordine sulle labbra
le frecce che guardano ognuna il suo petto.
Ma ecco, dal fondo della barca non armi
ma rami di ulivo alzano i marinai in cerca di asilo.
Vengono in pace o c’è inganno?

Zàgara d’alivu
Tutti a ncinziari li ciuri ammuntuati
ma picca genti canùscinu la zàgara di l’alivu
ca tra li pàmpini l’aria pitta a biancu merlettu
e fa di casa a na ninfa timurusa
ca si discerni mmenzu a li rami
nall’epifania di un pinzeri felici.
A so tempu
l’arbulu è pigghiatu di rizzi di grazia
e li rappi di ciuri màsculu e fìmmina
scattianu a millanta stizzi di luci
comu na cometa di sciampagna
mpirugghiata mmenzu li pàmpini.
Allura comu pi maarìa, duru
e sturtignu pi com’è, l‘alivu s’abbinigna
e in difettu di api e farfalli
s’abbannuna a lu ventu fecundu
chi la so simenza cunnuci luntanu
a maritari àrbuli ca già si circàvanu.
Veru è, la terra è malata
e si mbrogghia la matassa di li nostri sònnira
ma resta la grazia di truvari nna lu fistinu nuziali
nna la felicità di ogni ciuri ca lu fruttu pripara
l’aùgghia e lu filu
di la natura sempri nnammurata.

Fiore d’ulivo
Tutti a riverire i fiori illustri
ma pochi conoscono il fiore d’ulivo
che tra le foglie l’aria di bianco merletta
ed è casa a una timida ninfa
che si ravvisa tra i rami
nell’epifania di un pensiero felice.
A suo tempo
l’albero è percorso da brividi di grazia
e i grappoli di fiori ermafroditi
esplodono in migliaia di stizze di luce
come una cometa di champagne
impigliata tra le foglie.
Allora come per incanto, duro
e storto com’è, l’ulivo s’addolcisce
e in difetto di api e farfalle
s’abbandona al vento fecondatore
che il suo seme porta lontano
a sposare alberi che già si cercavano.
È vero, la terra langue
e s’imbroglia la matassa dei nostri sogni
ma a noi è grazia ritrovare nel festino nuziale
nella felicità di ogni fiore che al frutto attende
l’ago e il filo
della natura sempre innamorata.


Alivu di fiura
Urtimamenti m’avìanu abbannunatu
ma un fu na cosa troppu tinta.
Cu giusta misura li ràrichi sicutàvanu
a campiari nna li vini di la terra feraci
mentri li frunni asprigni
liccàvanu cu li celi aerei
e lu circu di la luna luminaria
vigghiava supra la notti paisana.
Poi, malamenti sdirraricatu
c’un corpu di scavaturi
mi carriaru nta sti strati
di palazzi àvuti e cuddati sculuruti,
fuddatu nta un biruni di plastica marrò,
a vappariàrimi
cu li me cicatrici gruppusi
di vecchiu gladiaturi
a la trasuta di feri e granni alberghi.
Ora haiu pi cumpagnu stu picciuttazzu nìvuru
scampatu a li flaggelli di terri luntani
puru iddru caddusu e sulu
eleganti pi natura ma vistutu
comu un manichinu cu li scarpi stritti.
Suli o acqua, mutu, unn havi a fari nenti
ma sunnu un lampu di pici, nnall’uri vacanti
li so occhi d’Africa calmi e sintimintusi
un tempu sazzi di orizzonti rusciani
ora smarruti nna li marchiggi
di la fàvula ingannatura unni semu
tutti dui priggiuneri.

Olivo di rappresentanza
Ultimamente mi avevano abbandonato
ma non è stata una cosa terribile.
In giusta misura le radici continuavano
a pascolare tra le vene della terra ferace
mentre le aspre fronde
amoreggiavano con i volubili cieli
e il circo della luminaria luna
vegliava sulla notte contadina.
Poi, malamente sradicato
con un colpo di escavatore

mi hanno portato in queste strade
di alte case e scoloriti tramonti,
serrato in un bidone di plastica marrò,
a guappariarmi
con le mie nodose cicatrici
da vecchio gladiatore
all’entrata di fiere e grandi alberghi.
Ora ho compagno questo ragazzone nero
scampato ai flagelli di terre lontane
anche lui ruvido e solo
elegante di natura ma vestito
come un manichino con le scarpe strette.
Sole o pioggia, muto, non deve fare niente
ma sono un lampo di pece, nelle ore vuote
i suoi occhi d’Africa calmi e sentimentosi
un tempo sazi di sanguigni orizzonti
ora smarriti negli inganni
della beffarda favola in cui siamo
tutti e due prigionieri.

lunedì 19 settembre 2022

Le prose e i versi inediti di Lucianna Argentino

 

Abbiamo invitato Lucianna Argentino a proporci una scelta dei suoi versi accompagnati da personale commento.


Se all’inizio del mio percorso esistenziale e poetico la poesia fu un rifugio in cui potevo sentirmi libera di essere me stessa, di dare voce alla malinconia, al senso di inadeguatezza, di solitudine che rendevano inquieta la mia anima assieme al timore di crescere, mi resi ben presto conto che la poesia era tutt’altro che un rifugio era, è, anzi uno stare esposti e un esporsi alla vita, alle sue ombre, ai suoi abissi e alle sue altezze. E’ un modo di stare nel mondo con i sensi bene accesi e pronti a recepire ogni più piccolo sussurro o grido che ci viene dal mondo perché i poeti sentono che in ogni cosa, in ogni essere umano, c’è una realtà più profonda e a quella rivolgono la loro attenzione chiamati da una voce a cui obbediscono perché non possono non farlo. Una voce che vive dentro loro stessi come senso di responsabilità, di cura, di affetto per il mondo e per la parola poetica che riesce così bene a descriverlo nella sua verità fondamentale, nella sua bellezza senza negarne o ignorarne gli orrori, il terribile, ma sentendo che non ne sono gli aspetti fondanti anche quando tutto sembra indicare il contrario. Gli inediti che qui offro ai lettori sono di diversi anni fa. Quelli di “Corpo di fondo” ho cominciato a scriverli nel 2010 a un anno dalla morte di mio padre per superare il senso di mutilazione che sentivo crescermi dentro anche perché netta fu, e ancora lo è,  la sensazione, il dato di fatto, che con lui se ne è andata via una parte di me, della mia storia. Ho cercato quindi di andare più in là che potevo con la memoria, alla ricerca del ricordo più lontano che avevo di me e di lui insieme, ma la memoria ha molte diramazioni, molte strade da percorrere ed è impossibile farne qualcosa di lineare. Tra i tanti ricordi che sono affiorati nella mia mente uno che mi è particolarmente caro lo racconto nella prima delle prose poetiche perché è stato quello che in quel giorno dell’estate del 2010, ha dato avvio alla scrittura dei testi successivi. Particolarmente caro e significativo alla luce della mia relazione con la parola poetica fu il gesto di mio padre di prendere le misure della pagina bianca di quel diario, segnare dei puntini e poi unirli a formare delle righe su cui io potessi scrivere (come a dire: lo sfondo bianco, lo spazio libero c’è, ma ci sono anche delle regole - la sintassi della libertà). Quasi una benedizione paterna alla scrittura. Da quel ricordo, dunque, il mio viaggio nella memoria si è fatto un viaggio interiore anche perché non avevo intenzione di scrivere un’autobiografia (anche se inizialmente li avevo intitolati “Frammenti di autobiografia postuma”, postuma perché tutte le autobiografie lo sono in quanto l’io che  racconta e l’io raccontato non coincidono) benché, in ultima analisi, di autobiografia si tratta. Di riscrittura della vita, così come lo è la poesia. Un’autobiografia spirituale, l’autobiografia di ciò che la vita ci dona e di ciò che alla vita doniamo, di ciò che della vita vissuta rimane in noi come qualcosa di vivo che continua a respirare e a lavorare in noi. In un altro testo inedito su cui sto ancora lavorando mi chiedo, infatti, se non sia il presente a gettare luce sul nostro passato e non viceversa come comunemente si pensa, ma a ben vedere è la stessa cosa essendo passato e presente solo delle convenzioni. E così le prose di questo libro si dipanano lungo 10 anni (le ultime le ho scritte nel marzo del 2020) e da ricordi di fatti concreti si trasformano man mano in un diario di stati interiori sempre vivi.

Gli inediti di “Appunti di un canto controverso” (ancora non so se sarà il titolo definitivo, ma penso di sì) nascono al principio del 2020 quando si cominciava a parlare di pandemia. Le prime due poesie sono datate 8 febbraio 2020. In quel periodo ne ho scritte tante, con una media di una o due al giorno, stupita anch’io di questo fatto per me inedito. Non so se è stato per via del sospendersi del tempo o meglio del dilatarsi del tempo privato del suo consueto ritmo di impegni quotidiani in cui siamo sconfinati tutti con esiti diversi. Sono comunque poesie che non parlano del Covid e dintorni, ma certamente sono poesie pregne dell’atmosfera di quei mesi, di quei mesi hanno respirato la temperie (e le intemperie) e quel respiro riportano sulla pagina. Direi che il digiuno dal fare ci ha spiazzati, ci ha messi davanti a qualcosa di totalmente nuovo e inizialmente, nonostante il dolore che molti in quel periodo stavano vivendo, positivo perché ha portato alla luce aspetti e realtà di noi italiani che già esistevano, ma a cui i media non davano risalto e a cui, purtroppo, non ne hanno dato più. Si è compreso che c’è un modo diverso di stare al mondo (cosa che i poeti sanno per costituzione genetica), tuttavia è durato poco come il seme caduto nel terreno roccioso della parabola evangelica che subito germoglia, ma altrettanto presto si secca perché non ha terreno profondo dove attecchire e nutrirsi. Allora queste poesie vogliono essere una testimonianza in presa diretta direi dello spirito di quei mesi, di quello che hanno seminato in me e di quello poi che ho rimesso al mondo. Il tutto nel senso di una continuità tra la quotidianità e la parola poetica che ne ha operato una sorta di elevazione a una dimensione storica.  Facendone anche un vero e proprio luogo in cui ognuno può specchiarsi per ritrovare sé stesso, quel sé che la vita a volte rende frammentario e irriconoscibile persino a noi stessi. Perché fondamentalmente frammentaria e spietata è a volte non la vita, ma ciò che della vita facciamo o non facciamo, della nostra vita e di conseguenza di quella degli altri. La poesia, l’arte ci ricordano allora quello che in quei mesi sembrava avessimo finalmente compreso, cioè che fare va bene, ma essere è fondamentale.

 
Inediti da “Corpo di fondo”

 

La bambina guardava il padre che con un righello e una matita tracciava righe sui fogli bianchi del diario con la copertina di pannolenci rosso e un piccolo lucchetto dorato. Tracciava righe perché le sue parole non sbandassero su quel bianco che allora era terra straniera, perché la punta della penna si poggiasse su di esse e proseguisse sicura il suo viaggio. Cominciava così ad imparare che la realtà si può riscrivere, che sul bianco della pagina poteva progettare se stessa e nuovi mondi. Offrire un rifugio al tempo.

 

Piazza della Loggia a Brescia;

il treno Italicus;

il massacro del Circeo;

l’omicidio di Pasolini a Ostia;

il 1977;

via Acca Larenzia a Roma;

le Brigate Rosse e l’omicidio di Aldo Moro;

la stazione di Bologna;

 

L’adolescenza sua toccata da anni feriti da un’inquietudine sconsacrata e sterile. Miseri misteri sciolti nei liquami della decomposizione umana. Lo spirito del tempo, dallo schermo in bianco e nero, bruciava nel roveto ardente di un esodo senza patria. Lei, intanto, svernava in un’età di attese, di lavorio di fondamenta, preparava il terreno alle promesse. Si annidava all’esterno di quel male che pure ingoiava, la sera, prima di Carosello.

 
 
Conserva nelle mani le ricorrenze, le cose che sembrano andare e invece rimangono in un silenzio che non sa più dirle. Complice la vita le annoda alle parole – come da bambino suo fratello legava a un filo le automobiline e le trascinava per tutta la casa. Le tiene in grembo, sfoglia l’almanacco del suo vigile abbandono al clima della pagina e annota in margine quella verità che la lega all’ombra delle cose.

 
 
Un  tempo s’affidava alla conoscenza che degli arrivi hanno i treni più che alla sapienza che delle partenze hanno gli uccelli migratori, ma ora è a questi – marinai dell’aria – che chiede la rotta, il segreto della loro misteriosa capacità di orientarsi sulle mappe invisibili che tracciano gli esseri umani nel campo magnetico terrestre. E si chiede se poi qualcuno vorrà sapere quali alibi contengano le sue mani per le opere non compiute, per le omissioni, ma anche quanto abili siano state nel tracciare sulla pagina l’odore e il sapore della vita quando con le parole scava una verità limitata  nell’illimitato enigma del mondo.

 
  
Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano di ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.

 

Come i cani segue la traccia chimica della realtà, annusa l’odore emotivo degli umani - la paura, la gioia e ne fa traccia alfabetica sulla pagina. Scompagina il silenzio, lo attiva perché nella parola sia parola trasparente che lasci passare la luce come fa la vita, a sorpresa, quando si materializza e appare improvvisa in un giovane cervo che dal bosco attraversa la strada e nel bosco di nuovo scompare.




Inediti da “Appunti di un canto controverso" (2020-2021)

Il caparbio perdurare della specie,
innescata la sequenza di consenso,
per commozione tradì le regole del caso
e  promosse la grazia primordiale delle corde vocali
- fu quella e il suono di fiamma che ne venne
a condurci dallo spavento al canto.

 ***

La dicitura blindata delle cose
è una forma d’imperfezione
- come nei diamanti-
più preziosa della perfezione stessa.
E’ questa che i poeti cercano
col cuore rarefatto
la combinazione
di essere e di apparire
il farsi verità
di una menzogna.

 ***

Trema chi dell’abisso fa suo seme
e teme sia tenebra il raccolto,
ma poi la luce viene
a raggi o a perturbazioni
ed è una forma di limpida materia
l’amore che ne scaturisce
e sgrana le ore nell’opera del tempo
ma non è questo ad invecchiarci
è quanto tratteniamo
- tutto ciò che non lasciamo andare.

 ***

E chi dallo sconforto
a una sua quiete torna
poi tace quel tornare
ormai che sente
approdo più sicuro
l’alto mare.

 ***

Le ore - agili sorelle- scardinate dagli istanti
smarrite nel clamore degli eventi
oscillano agitate dal vento dell’imprevedibile.
Confuse non sanno a quale limite aggrapparsi
e stanno come pane avanzato
che in sé mantiene il lievito e la spezzatura.

***

 E ora che anzitempo si è attraversato
il guado del secolo
il limite inatteso del nostro abitare
ci avviamo verso la soglia di qualcosa
che più non somiglia a ciò che eravamo.

 ***

Cosa chiedere alla vita,
a queste ore scandagliate
con mani confuse, con cuore scardinato?
Adesso che si sceglie
tra chi lasciare andare e chi tenere qui.
Adesso che l’attesa pioggia è arrivata
ma non ristora l’asciutto della terra.
Non chiedere, dunque  rispondere
con quanto in ogni silenzio è respiro
- una preghiera o un canto
che di pietà sorride.

 ***

 E’ tornato maggio coi suoi deserti asili
e gli impensati vuoti
abbracciati al silenzio dei cortili
quando non c’è altra musica
che lo sfrecciare alto delle rondini
il loro garrito che rammenda l’aria
lacerata dalla paura di chi tra quattro mura
sente che la vita è vita condensata
e come gli atomi perdendo energia
emette luce. E luce allora sia
e illumini ciò che ci fa umani
mostri che non è radice il male
ma lo recide l’essere amati e amare
- l’impegno quotidiano
di chi con le parole dalle cose
estrae splendore.

 ***

Non pensare sia un caso il male
ma guarda la grazia innata
- la matrice geometrica del mondo -
e il bene che ogni giorno attende
le nostre mani per farsi carne di gioia.
Senti la gratitudine adimensionale del vivere
nell’impasto di male e di bene
del nostro circostanziale esistere.

 ***

Avremmo bisogno dell’olfatto dei cani
del loro udito o della bussola chimica
di certe specie di uccelli
per sentire la voce che orienta i nostri passi
e di un senso festivo per darle ascolto,
per non incespicare contro ore senza gloria
di luce che  scivola dagli occhi
e si coagula in un grumo di tenebra.

 ***

Se è  distanza uguale
a quella tra la rosa e il suo profumo
non temo lo stare nel silenzio
dove l’attesa è certezza del bello che viene
e del bene vivo nella materia del nostro risveglio
nel mattino imbastito di voli e del mio quotidiano
prestargli il cuore per un canto spezzato
dall’abbaiare di cani senza pietà
e ricomposto nell’attimo preciso
del traboccare delle ore
da un tempo che più non le contiene.

 ***

Davanti alla mia finestra passa il mondo intero
eppure è solo un rettangolo di luce tra due pareti
su cui al mattino sosta il sole e ha la stessa trasparenza
che si addice al vetro e allo sguardo umano
quando in esso il tempo cambia direzione
e la sua freccia si conficca nell’attimo
che geme disorientato come chi
- troppo a lungo -  ha guardato in alto.

 
***

La pioggia scurisce i marciapiedi
ma tace di che stagione è il frutto
da cui proviene l’inquieta sostanza
del nostro pensarci  un po’ più in là
sfalsati sulla linea della vita
eppure veri quando il dolore
ci piega le ginocchia.

***

Spunto la lista della spesa
ripasso a mente il necessario che mi manca
- il pane il latte le uova –
e qualcos’altro che sfugge alla penna,
ma poi dal taccuino alzo lo sguardo verso la finestra
e mi cattura il superfluo che è un necessario rovesciato.
Così da quel rovescio prendo la grazia efficace
a questo istante non predestinato
e la ripongo in quanto dell’umano è attenzione
ed è allora che ciò che sfugge, ammansito, torna.

 
***

Cospirano le mani e lo sguardo
per  obbedienza a una segreta voce
a un più alto domandare
la remissione della colpa
di non saper ricambiare la promessa
quando scrivendo sento il nemico
scorrere nelle vene
ma in esse – nelle piene della loro giustizia –
il male s’incaglia e depone le armi
eppure so che ha perso solo una battaglia.