venerdì 13 maggio 2022

Gli edifici pericolanti di Massimiliano Damaggio


Abbiamo invitato Massimiliano Damaggio a proporci una scelta dei suoi versi



Edifici pericolanti

Anni fa vivevo in un palazzo degli anni '60. Un giorno l'amministratore comunicò che sarebbe stato necessario fare delle infiltrazioni di cemento perché la struttura portante si stava sgretolando. Da fuori non si notava. Era all'interno dei muri il problema. Era un edificio pericolante.

A Sarajevo nel '98 era da pochi anni finita la guerra. Gli edifici pericolanti erano innumerevoli. C'erano macerie dovunque, l'acqua era razionata e distribuita in determinate ore della giornata. Un giorno accompagnammo in tram un amico all'aeroporto e ci trovammo a dover attraversare un campo minato. Vidi sulla faccia dei compagni un terrore muto e capii che eravamo edifici pericolanti. Fino a pochi minuti prima scherzavamo, ridevamo sul tram.

Ciò che sta per cadere non è caduto. Con gli anni ho però capito che ciò che è pericolante può essere già crollato ma non sempre lo possiamo vedere. Come il palazzo nel quale abitavo o i cittadini di Sarajevo in quel '98. Questo gioco dell'equilibrio fa sì che essere pericolanti, o meglio in bilico, sia la nostra condizione esistenziale.

 
Le cose con le dita

Transitiamo nella zona industriale
su questa terra defunta riposano
nomi di cose in disuso
gonfi di piogge oblique fioriscono
gli uomini dismessi

Aspettiamo, alla fermata dell'autobus, la sera

Sono piccoli vegetali oscuri
dove immergere la mano
è questo rumore senza forma
sono le cose con le dita
impermeabili fiori all'incontrario

corpi scivolati nell'ingorgo
di acque inquinate defluiscono
in esistenze decimate
un nome dopo l'altro, dentro i tabulati, fino all'estinzione

In questo modo precipita la notte
Un alito assente scivola fra i denti

Aspettiamo l'accredito sul conto corrente


Poesia della forza vendita

Esiste il tempo degli uomini in affitto
ripiegati in due dentro il contratto
nell'atto di spalancare la bocca
per ingoiare la moneta: Complimenti
mi dice il manager, Lei è in progressione
tuttavia non sa gestire le risorse:
ci vuole la carota, e ci vuole il bastone

Esiste il tempo dei ruminanti
che sanno l'intimo piacere del bastone
il Suo scopo è essere una molla
caricare il significato dei corpi: Lei
deve scavalcare la catasta dei giorni
sopra cui sta un obbiettivo,
che ci segna


Maurizio il caporeparto e il rackjobber

Tutto il giorno ho allineato
i prodotti sullo scaffale
come fossero versi

e ora sto con l'ordine in mano
fra i carrelli abbandonati
dove dormono i bambini
consumati, nel silenzio

E in questa devastazione, Maurizio
stiamo, fra i carrelli abbandonati

È questa la semina del bulbo
per le voglie del margine,
il campo defunto, e il feto coltivato
che sboccia sul ripiano e si apre in sconto

Questa la trincea per il significato,
l'obbiettivo, e poi il punto
che l'orario ci mette al nome


Θα είναι η ομορφιά η εκδίκησή μας
Sarà la bellezza la nostra vendetta

(frase su un muro di Exàrcheia, Atene)

 Nel '97 passai l'estate con l'amico Samuele a Kìthira, una splendida isola a sud del Peloponneso. Una sera assistevamo a un tripudio di colori sul mare e Samuele mi disse: “Tu sai perché tutti considerano bello ciò che stiamo guardando?”. Tutti i poeti fanno un gran parlare della bellezza ma io non ho mai capito che cosa intendano. Non so cosa sia la bellezza. Ripensando al tramonto, potrebbe essere una cosa qualsiasi che rende felice ogni singolo individuo il quale ha, forse, una sua personale concezione di felicità. Non so dare una risposta. Ho però intuito che è nell'incompletezza di ogni singola risposta che si può trovarne un poco, laddove la porta mostri lo spiraglio di un'ulteriore scoperta, di un tentativo ancora, in opposizione al programmare che nega qualunque mistero e invece di creare domande impone risposte. Nell'imperfezione di tutto e nel nostro tentativo di trovare un equilibrio penso ci sia un indizio di bellezza.


Sull'isola di Kìthira

La strada, bianca come un disinfettante
le pietre grandi, le pietre piccole
le colline, vuote come una morte recente

Questo alla fine è la poesia
una mosca tossica
che depone nel corpo le uova della solitudine

Apro le mani, piene di dita inutili
che sanno solo scrivere parole


San Liborio, Civitavecchia

Queste parole che guardano il sole
questi ragazzini senza vele
che giocano nel campo di pallone
e intorno a loro il mondo tutto
e il vento

Li guardo e mi chiedo dove attraccheranno
un sole caldo li ha sfiorati
ma non basta a salvarli dalle macerie

Primo è l'abisso, che ci osserva
e non conosce la pazienza, e ci insegue

Secondo, l'amore che manca alle mani
per poter raccogliere queste parole
e farne ragazzini che giocano
e ridono


Sulla statale per Killìni

Ma io alla fine è con l'aria che combatto
e levo in alto le braccia per tradurre
una carne in una frase, un risorgere impossibile

e così torno al volante, così incontro
il cane morto per la strada

Se la tua parola era di inciampare nella ruota
e il vuoto che hai lasciato è ignorato da ogni cosa
con che grammatica interrotta chiami, ora
quelli che passano, e non si fermano
perché di te hanno paura

tanto terribilmente presente sei in tutta la tua assenza


Simulazioni

In una singolarità, cioè un buco nero, il tempo non esiste. Ciò che esiste convive con il suo opposto. Forse è questa speranza d'assenza di tempo e luogo, e la conseguente idea dell'annullamento della morte, che ha portato la nostra società a fondere realtà e finzione, sino a far scrivere a Baudrillard che viviamo nell'epoca della simulazione, significando con ciò che ci siamo lasciati alle spalle un mondo sociale più genuino e autentico. Ciò che era genuino e autentico era però tarlato da grandi difetti, e in fin dei conti a molti di noi potrebbe oggi risultare poco attraente. Il nostro tempo è impegnato a costruire un mondo fittizio solo in apparenza più equilibrato di quello precedente, e si spinge, scrive Latouche, fino “allo sradicamento dall'immaginario collettivo della morte. E oggi, la vita, per quanto prolungata non ritrova una sua pienezza. È solo sopravvivenza.” Tutto ciò lo si può definire altrimenti come assoluta mancanza di equilibrio. O follia.


Il materiale

È molto il materiale, che risale
fino alla superficie: del tuo giorno
del passante, di quest'animale
sull'asfalto, aperto in due
all'eccessivo sentimento
per un solo corpo, questo

sopravvivere, gravido di cose
da fare, da acquistare
un articolo, questo conviene
il calcolo del margine, Guardi
non vedo margini di manovra

Eccessivo il materiale
che acquista, che figlia, che insiste
nell'avventura umana e dura:

la nessuna avventura

...
Risale il materiale
fino al sorso delle mani:
non potabile
una mano 
nella serra dei corpi
raccolti a fatturare
chiede due ore di permesso
per andare a riprodursi

Io non posso tradurre tutto
questo pianto, tutto
in parole, non posso
tracciare il grafico esatto
della produzione di massa del dolore

...
E' molto il dolore, e io poco
apro la porta, vado a lavorare
il dolore con le mani
degli uomini molti
alla catena del carrello
che riemergono delusi
dal detrito quotidiano
masticando gli scontrini

e alla scatola di cartone
dove dormonogli involuti
in un cubo senza lessico
evapora il calore
un dito dopo l'altro
fino a quando il polso cede
e dal buco nell'asfalto
germoglia, tiepido, un rancore,

come una madre che per troppo amore
al bambino ha divorato il volto

...
C'è il bambino dilaniato
nel piatto, l'animale coltivato
e questo taglio alle mani
e questa pena dei giorni
ai lunghi tavoli sommersi
che assemblano il prodotto

Ma a volte ci amiamo, nelle pause
piantiamo nel solco un feto ancora

Questo il campo defunto
questa la perfetta solitudine
di feti che maturano nei solchi

e sbocciano, e s'aprono in corpi
portatori di un dolore ininterrotto


Le cose con le forchette

Sediamo, dismessi, sull'autobus la sera
attenti a respirare con prudenza, quasi un alito
possa travolgere chi è disattivato e ora dorme

Così è l'ora che intravede il sonno
questo anticipo goloso della morte
perché la nostra carne è poca, e non riempie il giorno

Così è l'ora di entrare nella food court
e in questa prateria di tovaglioli
ordinare appetizers, gringos, nachos
onion rings, crocchette Kociss
tagliata McKenzie di pollo alla griglia
con pomodorini, rucola e mais
french Fries and Old Wild West sauce ®
flautas El Paso, cheese
rice &
jalapeños

venerdì 6 maggio 2022

'A che punto è la notte?' e altri versi, editi e non, di Laura Cantelmo


                                             


 Abbiamo invitato Laura Cantelmo a proporci una scelta dei suoi versi accompagnati da personale commento.



A che punto è la notte?

Nel fermoimmagine della città che tace

passeggi sotto il dito medio alzato sulla piazza

degli affari. Passeggi tra salegioco, bische virtuali,

guardando la compravendita dell’aria, del cielo

e l’altre stelle.

Oggi hanno fatto la pelle a uno schiavo nelle sterpaglie.

Nero brachicefalo camuso: cercava un tetto

tra le ferraglie.

La razza bianca sbianca tra paura e rispetto,

sbraca all’urlo dei mercanti nel tempio

e conta su un  Messia di pelle scura.

In questo freddo inferno chiamato antropocene,

dove s’annida il nulla, al canto malioso

delle sirene l’occhio della Gorgone

impietra moltitudini senza scintilla

Tu che graffi il buio con le mani rotte

aspettando Perseo,  dimmi se un re

senza alcun regno ucciderà il re sovrano.

Dimmi se è questo che ci aspetta.

Ragazzo, dimmi, a che punto è la notte?

 

Intorno alla poesia.

La storia del mio percorso letterario racconta come da attitudine spontanea la scrittura poetica sia successivamente divenuta un aspetto della maturazione del mio pensiero e del mio sentire.

Ho sempre scritto, fin dalle elementari, in modo confuso, segreto e con molti dubbi. Ai tempi della scuola leggevo moltissimo e scrivevo, distruggendo poi ogni traccia. Non sapevo se si trattasse di poesia - per me la poesia si limitava al dettato di quegli autori a volte mediocri che tutti studiavamo a memoria. Sull’onda delle emozioni, di fronte ai fatti della storia quotidiana, alla vita e alla morte oltre che sull’amore e sulla natura, io in segreto scrivevo.

La mia scrittura ha raggiunto maggiore consapevolezza quando l’esperienza mi ha resa più libera di espormi all’occhio esterno, mettendomi a nudo davanti al mondo. Una storia, questa, comune a molte donne che con la scrittura si sono “compromesse” e la cui esistenza testimonia della fatica di esprimersi al di fuori della propria “stanza”.

Solo negli anni ’90 del secolo scorso, sentivo le parole che mi premevano dentro. Sfidando il mio sguardo sulla frantumazione delle esperienze e dei sogni e sulla base del mio giovanile impegno politico esse mi imponevano di conservare un occhio critico sulla realtà. Ho iniziato così a scrivere evitando di scivolare unicamente nel diario intimo, evocando luoghi e personaggi mitici come personae/maschere per dar voce ai pensieri e alle storie che andavo riversando sulla pagina. Mi capita di scrivere nel pieno della notte - quando i pensieri più pungenti restano sospesi tra il sonno e la veglia per poi irrompere sulla carta in uno stato quasi orgiastico. In questo caso il testo di solito richiede poche correzioni, diversamente può accadere che i versi restino in un limbo inquieto che non mi soddisfa quasi mai.

Di fronte al dolore e alle rovine mantengo come faro l’idea di una palingenesi, di un passaggio dall’abisso infernale alla rinascita, secondo il modello della ciclicità del mondo naturale suggerito dal mito di Demetra e Persefone.

Emerge talvolta dal mio Es un Alter ego, un Altro/a, simile a me, ma non uguale che dà impulso a una narrazione del presente nella quale agiscono antieroi moderni, coloro che nell’emarginazione sociale conoscono quel malheur de vivre conseguente alla loro condizione, dai quali può prendere forma un componimento di ispirazione epica.

In una società come la nostra, nella quale gli dei dell’epica classica sono stati sostituiti da effimeri miti dello spettacolo, dello sport o da detentori di sterminate ricchezze materiali e virtuali, l’eroe del nostro tempo non può incarnarsi nella grandezza dell’Odisseo omerico, sovrano di un’isola nel Mediterraneo e bramoso di conoscenza, né tantomeno nel Cavaliere medievale alla ricerca del Santo Graal e neppure in Leopold Bloom, piccolo borghese della Dublino novecentesca. Il nostos odierno è quello del migrante che affronta il cimento del mare periglioso, sperando in un approdo dove aspirare a una vita dignitosa o del clandestino che sogna e forse riesce ad attraversare la frontiera tra USA e Messico, oppure semplicemente del medio/piccolo borghese occidentale alla ricerca di stabilità e sicurezza economica. In questo ritorno alla barbarie che avevamo orgogliosamente sognato di superare, penso che questo sia il destino ineludibile dell’epica.

Al di là della finzione pubblicitaria e di un’informazione sempre più supina e servile, l’occhio di chi scrive non può esimersi dall’intravvedere i fatti sotto la luce di una pietas malinconica, spontanea nell’Es, che talvolta assume toni lirici o elegiaci. Proprio come lirici potevano essere il pianto di Ecuba, il severo dolore di Antigone, lo strazio di Didone.

La poesia ha sempre – dovrebbe avere - a che fare con la storia, passata o presente. Chi scrive versi riproducendo il canone narcisistico del canto di sé stesso o delle proprie vicende avulse dalla storia ne riduce il respiro a semplice singhiozzo, sminuendone la grandiosità portatrice di una ventata di infinito, la testimonianza del nostro essere nel mondo.

Alto valore civile della poesia, quindi? Non so se ciò interessi ancora.  Che essa possa avere una funzione pedagogica, nonostante la sua posizione di nicchia tra i lettori di letteratura contemporanea, non è da escludere, anzi direi che da ciò essa possa trarre valore aggiunto, un’indicazione per il futuro, nonostante la presente sconfitta, di cui la parola poetica si fa portatrice, evitando di arrendersi incondizionatamente al nichilismo. Forse l’esempio di Brecht, per quanto desueto, può ancora insegnare qualcosa.

Quanto alla qualità formale del verso, la misura del verso, la sua musicalità, la tradizione francese di fine Ottocento di cui quasi tutti siamo figli, ha concesso una notevole libertà di scelta. L’opzione del verso libero e la possibilità di evitare strumenti retorici codificati non impedisce che sgorghi la musica insita nel testo, né riesce a ridurre la bellezza delle immagini che rendono la poesia un’esperienza unica. Il soggetto scrivente si fa portatore, secondo il proprio respiro interiore, di una musicalità originale che può concretizzarsi nell’endecasillabo o nell’ottonario, o in altre misure - poiché è sulla base di quel respiro che scaturiscono il ritmo e la musica.

Al mio ritmo interiore, come si evince dalla quasi totalità dei miei testi, sembra adeguarsi preferibilmente l’endecasillabo. È da ciò che essi traggono una musicalità indiscutibilmente mia.

Se oggi scrivo ancora è perché non so zittire un demone interiore che dà senso alle mie giornate, come è avvenuto fortunatamente nei lunghi mesi della pandemia. È ciò che mi rende tuttora vitale, nonostante gli anni e le avversità e accresce in me la forza di vivere.

                                                                                                             Marzo 2022                                                                                            

 
Carenza di azzurro

Miele e origano sul bordo delle strade

musica e vento sull’odoroso cobalto

del mare, abbaglio di contrade

nella viva tragedia della Storia.

Grecia,

mia dimora assoluta nella stiva del cuore.

A mani nude tra le radici marmi sorridenti,

volti trascolorati nell’eterna bellezza

eppure amici.

Il nostro nome è scritto dai ricordi.

Ferma la vela della nave dove felice

pulsava la vena umana dei pensieri nuovi,

sfumato il tempo della pace nel deserto

che avanza.  Nel lungo vento Afrodite tace.

Senza carezze né baci medichiamo

le piaghe, spersi nel mondo.

Carenza di azzurro e di luce è carnale

assenza d’amore.

 

La maschera del potere

Ispirandosi all’arroganza del potere contro cui lottava, Dante introdusse nel Canto IX dell’Inferno , davanti alla porta di Dite, le terribili figure delle Gorgoni, tra cui Medusa. Spesso in letteratura e nei saggi di analisi politica quella spietata immagine mitica viene individuata come la “maschera” che cela la inguardabile disumanità del potere politico tendente a sottomettere la volontà e la libertà dei cittadini. Il mostro capace di ridurre in pietra chi la guarda e nel suo sguardo si perde, è quello che l’eroe Perseo riesce a decapitare sfuggendo ai suoi occhi, grazie alla immagine riflessa nello scudo fornitogli da Atena. L’invito di Dante a “mirar la dottrina che s’asconde” dietro quella terrificante raffigurazione mi ha indotta a comporre il testo  che segue.

La Gorgone Medusa

«Venga Medusa; sí ‘l farem di smalto »    

dicevan tutte  riguardando in  giuso:

« Mal non vengiammo in Teseo l’assalto ».

«Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso ;

ché se il Gorgon si mostra e tu ‘l vedessi,

nulla sarebbe del tornar mai suso ».

(…….)

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto il velame delli versi strani!

Inferno, IX, 52-58 e 61-63

La Gorgone Medusa

Occhio di pietra che di pietra hai il cuore, occhio veloce

che impietra, tetra è la tua luce sotto l’alone della luna.

Come in un film ti specchi nello scudo/specchio di Perseo,

Medusa che impietri con lo sguardo e t’impossessi degli uomini

e dei sassi, poi per astuzia dell’eroe  divieni acefalo mostro

con chiome di serpenti e ali d’oro, esibito in mostra

sanguinante e annichilito, potere numinoso nella cuna

del mondo dove per te l’uomo perde la ragione e la fortuna.

Tu che violenta attenti alle nostre menti e infinito

terrore spargi all’universo, dei tuoi occhi il potere

si mostra ai nostri nudi corpi sovrano di schiavi,

uomini e armenti.

 
E noi piegati e senza voce vediamo nella pellicola

l’orrore entro lo scudo/specchio, cui il tuo potere

ostinato ci riduce.

 

Le eredi

Nell’aria turchina caute

ombre di un tempo irreale.

Ricordo coppie ridenti salire

il forte di Aleppo mano nella mano.

Ora

macchie di sangue sul guano che copre

le case abbattute, sui letti fredde

lenzuola gualcite.

 
Oggi, coperte di terra, quelle giovani

donne di Siria hanno i nomi e i profumi

dei fiori di prato.

Imbracciando il fucile hanno strappato

al nemico

le zolle stuprate, agli uomini

i diritti negati.

 
Ma ogni giorno ogni notte si accende

la lotta infinita sulla postuma rotta

del loro segreto destino che sale alle stelle.

 
Ma se la guerra

è aspetto naturale dell’umana malvagità

dimmi come potremo espellerla

dal mondo, se tace distratto il dio

degli eserciti di fronte a chi fugge le bombe

se hanno parola solo i replicanti

se nei salotti si fanno insulse domande

dichiarando guerra agli altri presenti

se solo la pietà dei becchini accende forni

scava tombe per l’eterna pace dei defunti

nel silenzio del vento.  

Contro ricchi analfabeti, invasati potenti,

pennaioli indifferenti ipocriti e falsari

che vendono l’anima per trenta denari

per salvare libertà uguaglianza fraternità

sola alzerò nel cielo buio la mia bandiera

tra le spine della stridula notte per cercare

luce tra le tenebre nell’infinita distanza

dell’Apocalisse per romperne i serrati sigilli

per supplicare incatenata alle sbarre

della democrazia amputata

pace     pace    pace

                                               12 marzo 2022

 

Mehr Licht

                          a Sergio Meeten, hasta siempre

Luna piena, questa notte afosa

buca il buio tra le bacche spinose

del cielo,  ritrova il sale sulle orme

del passato, storie evaporate,

versi colorati dall’arguzia

dall’amore segreto del mare profondo.

La erre affila arrota rapidi pensieri,

piume rade le parole del congedo.

L’ombra affolla i nostri sentieri

incrociati cercando nel mistero la luce

cui assetato anelavi.

Mehr Licht , più luce

mehr Licht  ripetevi carezzando

il ricordo degli amori, dell’amato

Callimaco e degli altri

nello stretto cunicolo del cuore.

 Agosto 2019

 

Questionario

Ditemi se la terra è tonda, se la donna

che corre col fazzoletto di seta è

borghese o popolana occhi cerulei

che china lavora la sua terra più

non avremo pietà vereconda

più non sapremo se chi fugge  la morte

in forre di fango e immondi rifiuti sa

di lasciare la casa a unghiuti predoni

dell’anima, alle volpi argentate che siederanno

in tondo a disquisire di pace e pregiati

metalli tra posate e cristalli pietanze

e cannoli pieni di panna trafugata

ai cannoni esposti ai bei tempi nei musei

da noi ignari come reperto e storia

sotto archi di trionfo a celebrar vittorie

ottenute da insane invasioni tra prati

verdi e fiori facendo ancora macello

della nostra carne, dei cuori con zanne

di lupi mannari che se ne fregano del bordello

creato e del lembo di terra che abbiamo

arato intorno alla casa parte di noi, strappata

per sempre a sogni fioriti per sempre

appassiti dall’urlo di allarmi nelle cantine divenute case

dalle iene ululanti nel sangue dei cadaveri abbandonati.

                                                                           8/03/2022

 

Ritorno all'Eden

 Vedi

quei poli di ghiaccio, dossi liquefatti

dove vanno a morire gli orsi su mari

di cristallo. Sui loro dorsi, negli anfratti

della calotta del mondo che ha fame,

il vento caldo smuove i vapori, appanna

il binocolo che invade il nido corsaro

delle diomedee in amore.

Là si accumulano i liquami della Terra

del tramonto.

 

Occidente.

 Eppure all’orizzonte

tra sorgenti strozzate da immani dighe

nella mezzaluna d'Assiria

ecco tra felci e totem avvampare

la silente gloria di Gobekli Tepe

epifania dell'Eden, enigma d’Anatolia.

 
Settemila anni.

 La nuova storia si affida disperata

ai suoi declivi, al sotterraneo mistero,

al nero delle crepe riarse da sarchiare,

al verde argento di olivastri e ulivi.

Resta sospesa nell’aria tra le braci,

dove in principio era il logos, la complessa

insperabile anima dell'Eden da salvare.

Da noi, per noi, orfani di pace,

novelli primitivi.

 Pylos,  Settembre  2018

                                                     

Maternità

Forse non sapete, da uomini che siete,

che foste per me benedizione

periglioso, tormento, spinoso accudimento

acuta necessità d’amore, fame

di tenerezza e di risate,

come un abito di tela da vela

nel vento dell’estate.

Vi guardavo la sera, dormienti tessere

del mio mosaico interiore, linfa

del mio ventre, passeri voraci

donati al mio amore dalle stelle,

tessere ad occhi chiusi la vita promessa,

coperti nel sonno dai miei baci.

 

Vernissage

Colori violenti incrocio di piani geometrie

Del tempo, donne in bikini nudi lontani

Come le mani che afferrano gli anni

Vuote di anima e amorfe nel centro

Con gli operai volati in paradiso

E i funerali del nostro scontento.

La mostra segue il nostro romanzo

Tarlato e stanco di un sogno grandioso

La libertà, l’eros libero e bello

Tarpato nel corso di questo tempo

Che tutto ha sviato, la pace e le strade

I bar gentrizzati, gli amici intristiti.

Eppure vivemmo quei giorni lontani

Con mazzi di fiori tra candide mani

Per dare purezza alle nostre parole

Per non travisare il senso del bene.

Ma oggi la guerra la chiamano strano:

Manovre di pace in un luogo lontano

La guerra ritorna igiene del mondo

Per chi in girotondo gridava gli abusi.

Poi s’aspettava che anime belle brandissero

Spade a offrire la pelle a qualche

Magnaccia vestito elegante che finge

L’onore di fare giustizia laddove

Si vive miseria e sporcizia.

Son detti oligarchi, ma sono papponi

Non è così che il conte Lev sognava

La Russia: purezza di cuore, giustizia

Parole veraci, linguaggio diretto.

Rispetto di umana semenza è stringersi

al petto il nostro futuro, i bimbi

innocenti che guardano alzarsi

il muro dei vecchi, la loro arroganza

invece di cogliere fiori di ogni colore

e spargere al sole il loro profumo

a onore del mondo che ha vita breve

se non si provvede a chiedere al cuore

e non ai mercanti di armi e di droga

la formula giusta da bere.