giovedì 14 aprile 2022

"Epica arcaica" e altri inediti di Gabriella Galzio


Abbiamo invitato Gabriella Galzio, già nota in queste pagine, ad accompagnare una scelta di suoi versi con un autocommento. 

 

“EPICA ARCAICA” E ALTRI INEDITI     di Gabriella Galzio

 
                                                                                              mutante afferro a ferro e fuoco
                                                                                              per la fanciulla della razza nuova
                                                                                              (da La discesa alle Madri)

Certo, la pandemia, e poi la guerra più recente in Ucraina - quali eventi estremi - hanno esasperato e messo ulteriormente in evidenza le criticità di questa civiltà, basti pensare che in congiunture come queste che più avrebbero richiesto la solidarietà tra gli umani, i grandi gruppi economici hanno continuato a fare profitti esorbitanti, dai produttori di vaccini ai fabbricanti d’armi.

Ma da sempre la mia poesia mostra un’inclinazione alla critica della civiltà, segnatamente con Apocalissi fredda, e un atteggiamento epico nel senso di una vis trasformativa, non certo nello spirito di conquista, ma di liberazione, ed è per questo che l’ho chiamata, anche per i toni talvolta epico-lirici, “un’epica gentile“. Con questo titolo è apparso, peraltro, un mio saggio ospitato proprio su questo blog su generoso invito di chi lo dirige; saggio nel quale ho cercato di mettere a fuoco la mia posizione sull’epica, (non più solo come atteggiamento, ma) in quanto genere, secondo la quale i ritmi dattilici e anapestici sono imprescindibili.

Ma tornando a quelli che a me paiono oggi i grandi temi dell’epica, c’è quello degli anziani e della rimozione della morte, soprattutto dopo aver vissuto anch’io, come molti cinquantenni, l’esperienza dolorosa e totalizzante di accompagnare per otto lunghi anni un genitore all’estrema soglia – tre termini mi sono affiorati alle labbra in quel frangente che non avevo mai pronunciato prima di allora: afflitta, avvilita, abbrutita. Segno che le parole hanno un loro peso specifico, quando non vengono dette a vanvera. E in quel frangente erano estremi i vissuti, anche perché provavo l’impatto materiale diretto di quella onerosità: per sei mesi ho fatto anch’io da badante in un disperato corpo-a-corpo, e ho capito quanto usurante sia questo lavoro e quanto eroico il sacrificio di sé, l’annullamento, che si consuma in quotidiani gesti invisibili; tanto che alla fine io stessa mi sono ammalata.

Fa dunque da sfondo all’inedito che segue l’esperienza traumatica di accompagnare la propria madre nel suo decadimento progressivo degenerativo verso la morte, esperienza qui assimilata al mito neolitico della Discesa agli Inferi di Inanna. Inanna viene infatti liberata dal chiodo della morte di Ereškigal, sua sorella e Regina degli Inferi, perché un’altra figura prende il suo posto, così come le badanti, invisibili alla nostra società, si accollano l’onere di accudire i nostri vecchi. Qui il riferimento forte è a un’epica arcaica - precedente l’epica classica di Omero e dei dori, nobilitatrice della guerra di conquista - fondata viceversa su valori materni di cura e una pietà anch’essa precedente l’epoca latino-cristiana che quella pietas l’ha solo ereditata. Una civiltà che lungi dal rimuovere la morte aveva fede nella reincarnazione, e conosceva le tecniche di trance per affrontarla e aprire alla trascendenza nell’immanenza. La citazione virgolettata sull’anima barbara è di Eraclito, vissuto ancora a ridosso di quella arcaica civiltà. Il riferimento a Bruno è quello alle sue dichiarazioni inerenti alla poiesis: “La poesia non nasce da regole, se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalla poesia”.

 
Prendete i vecchi ormai accantonati
che sono lasciati morire da soli…
dementi straniati nell’abbandono
i tanti invisibili senza riscatto
deboli fuochi di un camposanto


Nel cimitero della coscienza
si accordano i vivi ai più sani egoismi
ma nel destino della sapienza
la luce dei morti richiede udienza:
e lo fa con il chiodo del senso di colpa
perché è trama dei molti la singola vita.

È un’epica strana quella più arcaica
senza gli eroi della bella morte
senza retorica e sogni di gloria
eroi chiamati a gesta invisibili.
Assidui cantori di cicli più vasti
ritmano il tempo delle stagioni
dall’alfa all’omega senza rimossi
quasi in possente silenzio sonoro
varcano porte dell’al di là
conoscono soglie dell’immanenza
aprirsi a un volo radente il suolo.

Oggi nel grido dell’opulenza
senza pudore senza più rito
nel tutto esibito come ovvietà
tutti costretti a restare giovani
rifuggono l’ultimo tratto di vita
come la peste la propria età.

Ma rimossa la morte rimangono i vecchi
a sperare in qualcuno che abbia… pietà.

Abbiamo rimosso ogni senso di colpa
che ci unisce ai più fragili
che ci rende più tragici
ma trama di voci in un’unica voce
un coro sopito che veglia e tace
e anche sui morti sa fare luce.

È quella un’arcaica pietà
più antica di un Cristo che l’ha ereditata
perché remota si perde nel grembo
materno del tempo e del battito eterno.
Si affaccia ancora alle prime grotte
cattedrali di roccia dei primi vagiti
dove altri, sopiti, vanno a morire.

Che ne sappiamo di quei misteri
noi di mistero e velo ormai privi
“occhi e orecchie cattivi consiglieri
per chi abbia anima barbara”.

C’è bisogno di una nuova sapienza
- come del pane - o intelligenza del cuore
di una visione grano degli occhi
che sa di bene ancora incorrotto
portare il fiume lungimirante
e con il fiume gli argini,
da poesia le regole
– avrebbe detto Bruno -
di vastità e misura
delle cangianti forme.

Rientrare nell’alveo di una legge di natura
ascoltiamo la voce degli alberi
perdiamoci
nei passi aggraziati delle lepri
nei regni verdi dell’estate
quando, non viste, tornano apparizioni
e noi con loro, a una lingua di selva
torniamo alla sorgente.


                                          (“Epica arcaica”, 6 luglio 2021)

 
Ed è soprattutto sugli anziani che si è rovesciato lo tsunami della pandemia. Per i fortunati che non sono stati colpiti nella salute e negli affetti più cari, vi sono stati tuttavia una serie di scompensi più o meno gravi, tra cui quelli psichici, più sottili e invisibili: la paura e la riduzione della vita quotidiana a pochi gesti di sopravvivenza che ne è conseguita, in breve, una sorda oppressione e una grigia normalizzazione diurna che ha risospinto la vita dell’anima nella notte e nell’inconscio.

 
notti fa ho sentito affiorare una voce
e l'ho seguita nel suo flusso poematico
una voce che di giorno tace
e la notte prende a parlare per vie carsiche
e così i libri che passano di mano in mano
si rischiarano nelle parole di chi li intende

prende le vie meno usuali il destino
per bocca di quella voce che splende


(“per vie carsiche”, 14 luglio 2021)

 

Scrivo ormai solo quando gli altri dormono
protetta dall’oscurità delle maschere,
di giorno nessuno immagina
la potenza sciamanica della notte
quando libera i lacci diurni
di un pensiero ridotto
ai minimi termini:
rifare i letti i piatti i conti
il corso arido prevedibile degli eventi.
La notte invece ringhia ai mutamenti
riduce all’osso i fatti del giorno
riporta il lupo nel cono di luce.
E i sacri cardini riaffiorano del sogno,
la voce liminale per quanto flebile
torna a farsi udire dalle radici dei tronchi,
narra dell’esistenza tenera delle tortore,
infila storie delicate come perle
che appartengono a tutti in un solo fiato.
Gli alberi tendono alla vertigine alla luce
dal fitto intrico di un’unica radice,
così appaiono le nostre piccole vite
riassorbite la notte in un unico sogno,
l’umanità si abbevera ai canti notturni
riassorbe linfa dall’unica fonte,
le singole voci rientrano nel coro
di un dramma antico riportato in vita.
Quanto manca il teatro della notte
sorto dalle sonorità di una cavea
a chi di giorno troppo si allontana
dallo specchio rivolto al mare dei sogni!
che trotta e sbriga e arido riduce
la vita vera a una banale trottola!
La notte invece lentamente ricuce
in un mantello sontuoso
i brandelli di tutti,
parla dell’invisibile sofferenza dell’anima
costretta in abiti servili angusti
in una civiltà avvilita di avidi e rozzi
come a Saffo apparivano più rozze
le ceramiche barbariche dei Dori.
La storia si ripete in ogni sua frizione
sempre a un gradino più in basso
avvelena le fonti affossa la memoria,
solo la terra un terremoto le sue scosse
potrà scuotere l’anima sua figlia
dall’inedia, dal torpore
il mondo dalle scorie.

Non credo più alla narrazione degli uomini
destinati a durare un battito di ciglia.


(“Teatro della notte”, 6 luglio 2021)

 

Forse ricorderete che nel periodo di lockdown gli animali tornavano ad animare le aree antropizzate lasciate deserte, fatto già di per sé stupefacente, e, oltre ai cervi seduti indisturbati lungo lo spartitraffico dell’autostrada, l’immagine che più mi ha colpito è stata quella di un cerbiatto che correva felice tra le onde della battigia.

 

Risollevare una vita alla sorgente ardere ancora
nei desideri nei sogni impenitenti
e alla vita immaginale rinascere
dopo un lungo sonno di morte
cambiare vita sì, ridurla all’essenziale all’osso
come i barboni sotto i portici amano l’aria
e non temono la povertà della strada
il volto urbano della città sanitaria
senza il silenzio del bosco
o il cerbiatto che corre felice sull’autostrada deserta
e approda infine alla battigia portando il bosco al mare

Quanta felicità in una corsa viva
la corsa fanciulla di una Venere rinata
da tanta schiuma e luce abbagliante
Petra tou roumio che ancora risuona
nella conchiglia il fragore dei ciottoli
il loro nero splendore
la vita vera che urge dai contrasti
la vastità che spera
con occhi virginei aprirsi alla rinascita

                                                      (“Risollevare una vita alla sorgente”, primavera 2020)

 
Non fosse bastata la pandemia, siamo stati invasi dalla guerra, oltre che letale per il corpo, tossica per l’anima, soprattutto per l’amplificazione massmediatica che ne è stata data, e oltretutto per l’inedito impatto emotivo di inquadrare gli eventi bellici dal basso, dalla parte dei civili; ma tossica anche per l’eccesso di reazione adrenalinica scatenata persino nei più pacifisti.
E come a Buenos Aires erano scese in piazze le madri di Plaza de Maio, in Russia sono scese a sfidare il regime le madri dei soldati mandati in Ucraina. Ma è persino a rischio di retorica che esista un istinto materno che ancora una volta si ribella, è invece totalmente assente la domanda sulle donne che si accompagnano agli oligarchi che le guerre le decidono. Poi leggi in un trafiletto venato di gossip che sono donne formato escort identificate con l’aggressore, degradate al pervertimento dell’eros, la loro bellezza buttata al cesso. Ma non dobbiamo scomodare gli oligarchi russi e la guerra per trovare anche in casa nostra il fenomeno della cortigianeria, l’anima femminile sacrificata al potere. Siamo nel cuore della civiltà patriarcale, che ha eretto il dominio, la competizione e il conflitto a paradigmi portanti e soverchianti, avendo rimosso l’equilibrio relazionale delle forze – come insegna il mito – tra Venere e Marte, da cui nasce Armonia. L’amore, e non la pace, è l’antidoto alla guerra. La mediazione è l’antidoto al conflitto. La cooperazione è l’antidoto alla competizione. Al pensiero maschile che ancora teorizza che il conflitto è il motore dell’evoluzione, vorrei ricordare che, in una visione binoculare, l’altro motore è l’amore con cui da bambini bruciamo le tappe della crescita nello sguardo di nostra madre. È questo equilibrio degli opposti che è venuto a mancare, e una nuova civiltà non può che passare attraverso il ripristino di questo equilibrio e dei valori del femminile che facevano da contrappeso, tragicamente rimossi da millenni.          


Ballano i neuroni sulle testate dei giornali
le prime ore dell’alba gettate alle ortiche
la primavera che scotta dalle pagine del coro:
si rianima la guerra, si riarmano gli arsenali!
e l’anima già dissecca i pochi fiori aurorali
e l’oro che sgorga dai sogni buttato al macero
dei primi titoli di testa e la loro gogna…
siamo già invasi tutti, invasi nell’anima
il nostro giardino intimo infestato di vespe
a due passi dalla sorgente lo scolo velenoso
la guerra invade la psiche premia le bombe
ma chi l’ha decisa? - ognuno ha i suoi tarli -
chi presta giuramento? perché non disertano?
non fanno marcia indietro da questa età del piombo?
Continuano gli appelli, la mente infuria
in questo scorcio di notte, agitata da scintille
vano invocare il sonno, al passo nucleare degli eserciti.
Dovrebbero dividere, le donne le loro sorti
da quelle degli oligarchi, da tutti i poteri accerchianti
del proprio stesso aggressore disertare i letti.
Le grandi assenti, le donne dei dominanti
chi avete a fianco? con chi consumate commerci?
Avete svenduto l’amore, a laida merce di scambio
il fine pulviscolo d’oro, a nera polvere da sparo.
Avete profanato il tempio, e noi privi,
il nostro tempio è un bunker
dove nemmeno i pensieri respirano
e la luce dell’alba accomuna
plumbea e pesante
i cieli dei morti e dei vivi.


(“Le grandi assenti”, 6 marzo 2022)