venerdì 16 dicembre 2016

Su Fo e Dylan il dibattito continua: Paolo Borzi

Pubblichiamo un'ampia riflessione di Paolo Borzi, su Dario Fo e Bob Dylan.




Si potrebbe un po’ paradossalmente sottilizzare su un Grammelot di Dylan e su un carisma dylaniano di Fo. Il primo caso riguarda un uso e un cantare scolpito di termini spesso stranianti, di difficile interpretazione immediata (cioè l’opposto del Grammelot di Fo, sbiascicato in cui capisci tutto), ma con grande nitore  d’appeal poetico… ecco, nitore d’appeal poetico in Dylan, la sensazione di avere a che fare con una forza della  poeticità prima che con un individuo dotato di poeticità; sensazione talmente violenta da invadere chi ascoltava senza capire nulla dei testi, anche a causa di elementare ignoranza linguistica… cosa scontata  col Pop internazionale o col  Rock più o meno progressivo; assai di meno con  un declamato non esattamente melodico e latino su chitarra e armonica, come era specie nei primi tempi: una capacità “naturale” anche a-semantica e trans-semantica tale da giustificare a monte quanto di esaltante è stato proferito su quest’uomo, compreso il giudizio che l’ha portato al Nobel. Una simile  personificazione riguarda Fo rispetto il teatro. Era un Guitto, sì, ma di una grandezza sconvolgente. La caratura intellettuale era onesta, vivacizzata dalla indomita curiosità, solida e purificata dalla concretezza della pratica teatrale. Per entrambi il Cristianesimo fu una ossessione, un amore intrigato e smodato, da presupposti ebraici l’uno e materialistici l’altro.  Due personificazioni della rispettiva disciplina e notevoli intellettuali-ponte tra cultura popolare, critica laica e suggestione spirituale: tanto per cominciare a snocciolare qualche prima affinità.

Fo non fu mai “rinato” ma nel rapporto col Cristianesimo trovo notevole (più della dissacrazione dei Vangeli, che ai tempi della massima diffusione recitata sul campo di “Mistero” era faccenda assai manovrata, da parecchi e tutti ben lontani dalla grazia e dalle profondità Pasoliniane) la sua valorizzazione non tanto in chiave moderna, quanto in quella di fondamentale apporto alla Modernità. Per un intellettuale della nostra area non è cosa da poco evitare di fermarsi ad antitesi consuete e definitive sul ruolo della Religione in genere. In modo diverso rispetto a Pasolini (che nella fase “luterana” può forse essere accostato proprio a Dylan, per una specie di dualismo esaltato e quasi misteriosofico), Fo era colpito (come almeno ho ritenuto ascoltandolo) da quell’incontro-identificazione tra Logos e Amor, che in effetti innestò, nel passo tra l’alto e il basso medioevo (passo fondamentale anche per l’epicanuova, come analizzato sempre in questa sede), i primi semi del Diritto di Natura (Ius Naturae) come diritto universale umano, e quindi anche delle politiche civili e sociali nei secoli a venire. Questa valutazione del maturo Fo, che ho tradotta secondo il senso che ne ho colto, è tanto più notevole perché riferita a una linea “classica” del pensiero, e non, come più facile e scontato, al mondo eresiale o para eresiale, di cui egli conosceva e celebrava benissimo e moltissimo il peso politico. Sottolineo questo aspetto perché illumina ulteriormente sulla cristallina vivacità e onestà intellettuale di questo grande personaggio, e perché personalmente non conosco un autore che sia (stato) grandissimo, senza aver operato  una sintesi non solo formale, ma anche generalmente morale e pedagogica con elementi sapienziali della Tradizione (o viceversa, se si parte da questi ultimi per apportare una rilevante integrazione critica). I nomi, e le inevitabili costatazioni, ognuno può farseli da solo.

A proposito di Pasolini, devo accennare all’influenza enorme subitane già da ragazzo, in relazione proprio all’impatto con un Mistero Buffo gustato dal vivo, presso un Tenda Strisce capitolino, qualche anno dopo la sciagura dell’Idroscalo. Io posso affermare in tutta verità che avrei conosciuto personalmente Pasolini entro pochi giorni o al massimo settimane dalla data che poi è stata quella della sua morte, alla vigilia-per dare l’idea-del mio sedicesimo compleanno. All’epoca frequentavo molto, da amico e curioso, il gruppo di Franzoni a viale Ostiense, nel periodo in cui Pasolini invitava pubblicamente e affettuosamente l’ex Abate a farsi luterano; e frequentavo molto pure il cineforum di quel gruppo, essendo addirittura“attore”di filmografia sperimentale in super8, appannaggio di amici che quel cineforum gestivano direttamente, interpellandomi anche (ma erano intorno i venti loro, e ai quindici io). Non ricordo visite di Pasolini alla Comunità-franzoniana-di Base (che era oltretutto a poche decine di metri da “il Biondo Tevere” intendendo il ristorante della sua cena ultima) nei periodi precedenti; ma so che avemmo Paolo Taviani ed aspettavamo  Lui.

Nei successivi anni liceali divenni un pasoliniano fanatico e quasi claustrale, in lutto permanente per quella scomparsa atroce sopravvenuta a un passo dall’incontro. La mia formazione era totalmente infarcita del trinomio cinema-poesia-narrativa, con un gap gravissimo proprio verso il teatro “teatrante”, che ancora in parte mi porto dietro. Sbirciai in quel Tenda Strisce con l’atteggiamento di chi assiste a uno spettacolo “chic di massa” lontano da qualsiasi affinità personale, e nella lunga sequela tra gli “arcangeli poliziotteschi” e i monologhi seri e straziati della grandissima Franca (ricordiamo anche Lei) fui più volte sul punto di andarmene. Trovai molti di quegli sberleffi assai “alla moda”, ma ero io il cretino che si sentiva l’alternativo degli alternativi, solo appena giustificato dai precedenti descritti, che mi imponevano quasi di sentirmi a disagio. La mia è una autocritica sincera, per quel poco che possa interessare. Non si può comunque tacere il fatto che a Fo molto fu tolto ma anche dato, pur prescindendo dal giusto Nobel; e così non è stato per autori e intellettuali italiani altrettanto grandi e finiti nel quasi totale dimenticatoio. Certo, la pratica teatrale da una parte esclude (per colpa di una elitaria e malintesa letteralità letteraria) e dall’altra aiuta (per l’apporto di pubblico concreto); e molto la teoresi e la prassi di Fo aiutarono me, in modo tanto clamoroso proprio in virtù d’un contrasto tanto sfavorevole come quello nella mia seconda adolescenza. Se ho infarcito tutti i miei volumi di locandine coi personaggi e di brani fortemente  teatralizzabili, lo devo tutto o quasi a quella esperienza, che mi ha portato decenni dopo a parlare di Fo come un Maestro (quale ovviamente era, ma non così scontatamente in una storia come la mia) dentro una nota di antropologia letteraria, a me molto cara e importante (su “lo Psiconte”), in coda alla mia Materia di Britannia. E’ una testimonianza piccola e forse troppo intima, ma è quella che posso fornire, a pieno personale tributo alla caratura del nostro ultimo Premio Nobel alla Letteratura.

Il Nobel in questi due casi, immaginandoli come contemporanei ed è facile per le note fatali sincronie, è come sia stato conferito a una essenza che è anche un principio di forma, che connette in profondità  commedia dell’arte, teatro epico moderno ed epica-e lirica- canora e folklorica. Approvo quanto dice Romanò sulle “marginalità centrali” dei generi in questione (teatro “teatrante”  e canzone d’autore, da intendersi  come “sconfinamenti terapeutici” di andazzi oppostamente malati di troppa o punta intellettualità), ma quanto mi piace cogliere riguarda una intenzione nascosta che premierebbe, come differenziale squisitamente letterario, la personalità artistica e dunque quasi una specie di nuova (virgolette moltiplicabili a piacere) “aura” posta al servizio della cultura popolare. Non so se nelle intenzioni dei Giudici svedesi ci siano state tutte queste intenzioni nascoste, e comunque non credo volessero dare dignità a dei generi che non ne hanno il bisogno (già di loro gaudentissimi quando trovano il loro pubblico), quanto forse alludere a una vivificazione generale attraverso l’incorporazione di fattori periferici che in realtà non sono tali, come una vocazione“d’arte”certa e universalmente o quasi accertata, e per l’appunto una sensibilità trasversale e fertile tra critica e humus, capace di innalzare la cosiddetta semi-cultura (meticcia se non a ribasso, itinerante e bottegaia) per rigenerare la cultura tout court, spesso auto telica-referenziale, fino a finalmente collimarvi.



martedì 22 novembre 2016

Colti e Semicolti



COLTI e SEMICOLTI.

di Franco Romanò

Rispondo sia a Ennio Abate sia a Paolo Rabissi, contento prima di tutto che il dibattito decolli. Ad Abate, come premessa e prima di affrontare le due argomentazioni forti del suo scritto, dico che la mia contrapposizione fra le due tradizioni letterarie italiane (ma ce ne sono più di due) era poco più di una ritorsione retorica e polemica a certe argomentazioni comparse qui e là su giornali e in rete, di cui normalmente non mi occupo ma che in questo caso mi sembrava utile riprendere. Le tradizioni, comunque, hanno la loro importanza, sebbene quello che è più interessante per me è proprio dove esse s’incontrano e si scambiano registri e sollecitazioni. C’è un Dante espressionista ante litteram che ha influenzato assai Pietro Aretino e anche il ‘900, per esempio, anche se rimangono distinte le loro appartenenze. Fra l’altro, proprio la modernità è stata il terreno su cui colto e popolare, folklore e cultura alta si sono mescolate. In questa contaminazione si fa strada quello che entrambi avete chiamata un’area semicolta che è anche per me quella cui bisogna guardare, sia per appartenenza, sia perché mi domando dove sia quella colta colta.
La cultura di massa, proprio per la sua inevitabile natura pervasiva e anche divulgativa, ha avuto come effetto e contraltare di lungo periodo l’aumento dell’ignoranza relativa degli intellettuali che può assumere sia le forme della tuttologia (in questo senso le recenti performance di Recalcati un po’ ovunque sono un esempio tragicamente esilarante), oppure quella della superficialità da rotocalco. Un‘affermazione come: “In fondo Fo era solo un attore” dimenticandosi che un attore e capocomico era pure un certo William Shakespeare, è affermazione colta, semicolta o che cosa? In altre parole i Grandi Intellettuali di cui parlava Gramsci nei Quaderni e che potremmo accogliere come un altro modo di nominare la cultura più colta o alta, non esistono forse più o sono un retaggio di tipo squisitamente umanistico e non nel senso migliore del termine; nel caso delle scienze, poi, contano le èquipe, sia che appartengano alla cosiddetta Big Science sia che no.   
Fatta questa premessa vengo ai due argomenti forti di Abate quando afferma:    
     Non vedo, cioè,  né in Fo né in Dylan «la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo  recupera e usa nel suo teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht;  e Dylan valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Parto dal merito e da Fo. Come Paolo Rabissi, ritengo che Mistero Buffo, la dissacrazione dei Vangeli e l’uso che fa degli Apocrifi, nel contesto culturale italiano, siano fortemente emancipatori. Inoltre, l’invenzione del  gramlot, questa lingua popolare, maccherònica, capace di mescolare arcaismi e dialetti, alla fine diventa una meta lingua teatrale di grande efficacia che può valere anche per contesti che vadano oltre il mondo contadino di cui parla Abate. A questo aggiungerei la sua capacità di fare incursioni nella storia (Joan Padan alla descoverta delle Americhe) e, ancor più, la capacità di aggredire in presa diretta certi eventi politici e trasformarli teatralmente: Morte accidentale di un anarchico. Mi convince di meno nei suoi monologhi su Agostino piuttosto che Caravaggio e altri. Non mancano nella sua opera, anche brevi ma efficaci incursioni nel mondo operaio anche se in questo caso il merito, sia nella scrittura dei testi, sia nella recitazione è di Franca Rame: mi riferisco ai monologhi e ai dialoghi di Parliamo di donne, anche se concordo sulla sua relativa lontananza dal mondo e dalla società industriale. Non credo, tuttavia, che gli fosse estraneo Brecht, penso piuttosto che la sua coerente adesione alla Commedia dell’Arte lo portasse a dare minore importanza ad altri elementi.
Il caso Dylan è del tutto diverso. Egli è certamente un intellettuale della musica, ma non credo vada molto oltre questo; tuttavia nei suoi testi ha avuto una capacità straordinaria di abbracciare molti mondi e attraversarli in presa diretta. Per quanto io sia molto spesso critico nei confronti dell’americanismo deteriore e modaiolo, bisogna anche stare attenti a non peccare di eurocentrismo: Gramsci, che io metto al vertice, Benjamin e Adorno sono certamente importanti per il nostro pensiero critico, facendo anche qualche distinguo, ma credo che siano poco rilevanti (se non il primo, ma maggiormente in America latina) nel contesto americano.
L’argomento finale di Abate e cioè la necessità di tenere conto della critica della cultura di massa lo condivido in pieno e quindi se ho dato nel mio scritto la sensazione di contrapporre cultura popolare e semicolta a cultura alta, correggo subito il tiro perché non è quello che penso. Condivido anche quello che Abate afferma nel commento ulteriore pubblicato quando si richiama anche alla sua esperienza di laboratorio Moltinpoesia. Partendo quindi dalla concordanza con quanto affermato, mi pongo se mai un interrogativo: come farlo in modo positivo in questo tempo di post modernismo dilagante? Quanto e in che cosa ci possono aiutare ancora Gramsci e gli autori citati anche da Abate nel farlo? Secondo me c’è una sola strada: guardare dappertutto ed entrare nel merito. La prima espressione va presa alla lettera, ma dentro una distinzione rispetto al post modernismo. Quest’ultimo non riconosce più alcuna differenza fra alto e basso, popolare e colto perché omologa tutto eliminando la categoria del giudizio critico. Guardare dappertutto non significa dunque che tutto è uguale a tutto, ma essere consapevoli che il valore di emancipazione di un‘opera o di un autore possono vivere in alto in basso e nel mezzo, per cui può anche capitare che persino lo Strega riesca a premiare un libro importante e bello come La scuola cattolica di Edoardo Albinati. Entrare nel merito, assumere la categoria del giudizio come responsabilità imprescindibile senza timori reverenziali e partendo sì dalla propria appartenenza di area, ma nel rifiuto delle gerarchie che, del resto, non si sa più da chi stabilite. Io penso che in questi anni alcuni di noi compreso Ennio Abate lo hanno fatto e lo stanno facendo, per cercare di uscire da quello che è per me l’aspetto più negativo del post modernismo (che io vedo proprio come raddoppiamento ideologico della fase neoliberista che stiamo vivendo) e cioè il suo indifferentismo e la sua falsa democraticità.          

lunedì 14 novembre 2016

Ennio Abate risponde sul Nobel a Bob Dylan

Caro Paolo, 
rispondo brevemente e schematicamente alla tua sollecitazione. Ho seguito tiepidamente la discussione sui giornali analizzata invece in modo abbastanza appassionato da Romanò. Non per snobismo, ma perché, pur riconoscendo lo «strappo» dell’Accademia svedese prima con Fo e ora con Dylan o sorridendo per il «livido silenzio di poeti, narratori e critici dell’establishment» o le loro «reazioni scomposte», a me pare che  la questione non stia nel  conflitto gerarchico tra generi (letteratura/teatro nel caso di Fo; poesia/canzone nel caso di Dylan). Secondo me, Romanò  prende troppo sul serio  questo conflitto (che per me è di superficie) e allo snobismo arrogante dei sedicenti  difensori della Letteratura o della Poesia contrappone l’altra tradizione o l’altro canone: quello di Aretino, Ruzante, la commedia dell’Arte, Goldoni, per dire che anch’essi essi « fanno parte della letteratura italiana» a pieno titolo, come Dante, Petrarca, etc. Come Fo ai nostri giorni. Oppure cerca di trovare quarti di nobiltà  per Dylan risalendo all’«epoca classica arcaica» quando « la poesia era sempre accompagnata dalla musica»;  o ricordando  che – dopotutto - « Dylan ha scritto anche poesie vere e proprie, cioè testi che non erano destinati a essere musicati ma a rimanere tali».  
Io  forse mi attardo solitario  ancora su  posizioni di ascendenza marxista e fortiniana, ma, indipendentemente dai generi (e quindi dalla loro apparente neutralità e  anche dalle gerarchie che persistono e vengono difese in certi ambienti accademici conservatori ed elitari), porrei un’altra (superata?)  questione: il valore critico verso la cultura oggi dominante (che si serve sempre – ricordiamocelo -  sia delle forme elitarie che di quelle di massa o ex-popolari) o il valore emancipativo di un’opera da quale autore viene oggi raggiunto? 
Se riteniamo che tale valore sia oggi rappresentato dall’opera di Fo o di Dylan, bene, li si premi. A me non scandalizza affatto che quel valore possa essere espresso nel genere del teatro o in quello della canzone (o della poesia/canzone). Questo valore mi preme accertare. Non mi importa se viene espresso nella forma artistica a cui io sono più addestrato o che per formazione padroneggio di più. 
A questo punto, però, devo dire le mie attuali  riserve – correggibili con un’analisi più approfondita, ammesso che trovassi il tempo per farla - nei confronti sia dell’opera di Fo, che conosco un po’, e  sia dell’opera di Dylan, di cui so pochissimo. Se il valore critico ed emancipativo dell’opera di Sartre mi era evidente, non altrettanto – sottolineo: questo vale soltanto per me -  lo è nel caso di Fo e Dylan. 
A me è sempre parso che il teatro di Fo recuperasse una tradizione popolare ma di un mondo arcaico e contadino, ma che il suo teatro non riuscisse  ad “attualizzarla” e a fare i conti con i rapporti di potere che contraddistinguono le società industriali (e ora  post-industriali). Le quali hanno demolito il popolo e l’hanno sostituito con le masse. Varrebbe per Fo la critica che Asor Rosa a suo tempo fece con «Scrittori e popolo» a certa letteratura. O quella che mosse Fortini al Pasolini invaghito del “popolo” delle borgate romane.  Quanto a Dylan, nella mia ignoranza, potrei anche ammettere, con Romanò, che interpreti « lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi». A patto però che sia chiaro una cosa: si tratta dello “spirito della società di massa”.  Non vedo, cioè,  né in Fo né in Dylan «la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo  recupera e usa nel suo teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht;  e Dylan valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Un caro saluto
 Ennio

Paolo Rabissi
Ti rispondo con qualche osservazione, Romanò, al quale ho inoltrato le tue note, ti risponde a breve, probabilmente direttamente nel blog.

 1) Valgano ‘solo per me’ anche le mie note, anche se forse ho qualche conoscenza in più dei due in questione. Entrambi per me hanno rappresentato con la loro opera migliore un valore di critica verso la cultura dominante (cioè in definitiva emancipativa). Senza scendere in particolari, rammento solo per Fo la dissacrazione dei Vangeli in un’Italia clericale e fascista e per Dylan la raffigurazione del salariato precario (Maggie’s farm). Per me sono stati ‘conti’ fatti con i poteri dominanti e la loro cultura predatoria, sul versante del mondo più contadino per Fo, su quello fordista per Dylan.

2) Sì, siamo sul versante della cultura di massa, cioè dei semicolti tra i quali mi ci metto perché questa è la mia origine e nonostante le tentazioni non sono mai diventato tuttocolto.
Voglio dire che la cultura di massa ha in sé abiezioni. Ma ne ha anche quella colta. Ognuno parli dal versante che gli è proprio. Chi s’interroga tra i colti è per me degno dello stesso rispetto di chi lo fa da semicolto. Ma se ogni tanto si premiano quest’ultimi il senso anche per me è quello di una resistenza, di una opposizione alle abiezioni invadenti della cultura di massa, di cui fanno parte quei sacerdoti esaltatori della cultura colta che hanno dimenticato le proprie origini e contro i quali Romanò dice cose sin troppo tiepide: sono loro che inquinano la cultura di massa che va aiutata a esprimersi in maniera semicolta, non cortigiana, un po’ bastarda poco adatta ai salotti e alle antologie.


Va da sé che se hai tempo e voglia tue repliche ci stanno benissimo. 

mercoledì 19 ottobre 2016

Il premio Nobel a Bob Dylan

(disegno da Hokusai)
Il premio Nobel a Bob Dylan

Con l’attribuzione del Nobel a Bob Dylan la giuria dell’Accademia di Svezia allarga il perimetro letterario alle forme musicali popolari e colte riscoprendo e innovando una  millenaria tradizione di commistione fra le arti, abbandonata da secoli nei contesti perlopiù accademici,  ma presente e viva in altri contesti culturali (i grandi cantori brasiliani per esempio). La scelta, che reitera quella compiuta a suo tempo con Dario Fo, si pone nel solco di un allargamento delle tradizioni della modernità senza indulgere a derive postmoderniste, di intrattenimento e minimaliste (Stephen King, Dan Brown, A. Baricco).

Noi accogliamo con favore l’evento perché ci sembra che questo allargamento non possa che essere fecondo per le sorti della poesia, di quella italiana in particolare nella quale ci sembra, la cautela è d’obbligo, di poter cogliere segni concreti di tentativi di disegnare nuovi percorsi.
Tali tentativi, troppo spesso timidi, sono condizionati da un lato da politiche editoriali di pura sopravvivenza, dall’altro dalla resistenza da parte degli autori a lasciarsi definitivamente alle spalle il peso di forme espressive e di contenuti esausti, salvo poi lasciarsi andare a un nauseante piagnisteo sulle sorti derelitte della ‘vera poesia’.

Al di là delle opinioni e al di là della critica che abbiamo da tempo riservato ai premi e al Nobel in particolare, riteniamo che questa sia una buona occasione per porre alla poesia domande diverse.
Franco Romanò e Paolo Rabissi

(il nostro ragionamento resta per noi valido qualunque sia la scelta di Dylan sull'accettazione o meno del premio. Del resto è consapevolezza comune che si tratta di un riconoscimento tardivo e che il premio avrebbe avuto ben altro senso negli stessi anni settanta). 

domenica 21 agosto 2016

Lo sguardo sul mondo di una cassiera di supermercato, lo stupro subito da una donna: Lucianna Argentino ‘racconta’ in versi drammi del nostro quotidiano.

La poesia di Lucianna Argentino, spesso sospesa fra quotidianità inquieta e irruzioni nella storia, mette, al centro della sua ultima opera, Le stanze inquiete, il tema del lavoro. Lo sguardo è quello di una commessa di supermercato che, dal suo posto di cassiera, vede sfilare nel tempo davanti a sé una galleria di personaggi e mondi, specchio mutevole e spesso drammatico della nostra contemporaneità. Alla selezione tratta dall’opera facciamo seguito con un inedito che ha come protagonista una donna: la tragedia della violenza subita impone al poemetto un respiro narrativo e un tono dolente ed epico, suscettibili di aprire una nuova e felice stagione nel percorso dell’autrice.    







Lucianna Argentino, nata a Roma, ha pubblicato numerose raccolte di versi, tra le ultime ricordiamo L’ospite indocile (Passigli, 2012) e Abele (Progetto Cultura, 2015) e il presente Le stanze inquiete (La vita felice, 2016) da cui sono tratti i versi che seguono
                     


















Com’è il cielo oggi? Mi chiede Giuseppe,
un vecchio cieco che incontro al mattino andando al lavoro.
Spesso sono tentata di rispondergli che non lo so,
che me lo chiedo pure io com’è il cielo. Quel cielo che lui sente prossimo,
quel cielo che una granata gli ha frantumato.

*

Venuta fuori da un cespo di lattuga
la chiocciola con le antenne
saggia l’aria attorno poi si ritrae
nel suo fragile guscio.
Ne colgo la somiglianza con noi
nati retratti in gusci di ossa e carne
e una mano d’anima, della stessa essenza,
della stessa consistenza del mistero,
di supplice sostanza…
Penso mentre la depongo tra l’erba dell’aiuola.

*

Gli odori mi commuovono, mi raccontano vite
diversamente vissute. Stimolano le ciglia olfattive
calcano emozioni, sorprendono la memoria,
o nauseano l’amigdala ma sempre scavano nicchie di pietà.
Poi c’è Silvia che spruzza del deodorante
dopo che una barbona è passata alla sua cassa.

*

Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.

*

L’hanno buttato fuori il barbone,
indossava un lungo, lurido pastrano nero:
voleva una bottiglia di birra, ma loro erano i forti,
i puliti, quelli con il deodorante sotto le ascelle.
Erano loro quelli perbene, fratelli della signora bionda,
in pelliccia e grandi occhiali da sole
a cui non ha retto la vescica
quando l’hanno fermata per un controllo.

*

Mi fa trasparente,
mi fa il tasto zero di questa cassa,
l’uomo che paga e va via senza uno sguardo,
senza sapere che c’è un modo più vero
di stare nella vita. Lo sapeva Giulio,
quando mi donava mazzetti di margherite
legati con un filo d’erba, o Jaime che
mi lasciò una rosa rossa sulla cassa e scappò via.
Lo sa Eugenio che teme io possa fraintendere
le sue intenzioni quando mi offre un caffè
o Raffaele che mi portò un bicchiere di vino bianco
fingendo fosse tè. Ed è bellezza umana e fiori e caffè
sono aria, sono ossigeno,
sono la salvezza terrena dell’anima.

*

Sei piani e cinquecento sessanta passi
tra me e questo armadietto di grigio metallo
dove il camice attende il mio corpo
per farsi anima e generare foglietti
in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà.
Negli occhi degli uomini il pane delle stelle
mi è parso buio e raffermo, i versi di Char
puntellano questa giornata che mi sta davanti
tutta intera, tutte in luce. Ma ecco
ora è questo l’ombra, questo stare nell’affanno del fiato,
nella me stessa di cui si spartiscono le vesti
cose adiacenti al nulla.

*

Clara ha sognato la figlia che le diceva
mamma ho freddo e lei, disperata,
avrebbe voluto aprire la sua tomba
e metterle un cappotto
come Lidia a cui il padre, morendo,
ha chiesto portami il sole.
È per questo che recitiamo preghiere
portiamo fiori, per non avere freddo
per non temere il buio
quando la morte ci fa sistemi
a complessità confusa.

*

A Mimì
Mimì era un uomo con lo sguardo di fiume
e dei fiumi aveva la sapienza
e stava come mai uscito dalla nascita,
rannicchiato in una bolla d’eterno.
Di stirpe extraterrena s’era perso nella vita
perché era gatto in quella precedente
e in questa - randagio senza randa
s’era trovato fatto uomo a sgusciare sogni
con rametti di rosmarino sotto il cuscino
perché almeno in sogno il vero s’avverasse.
(I soldi per il treno - a Napoli dalla vecchia madre
le fasce per le gambe tormentate,
la spesa a lui che quando sorrideva
perdeva anni e si faceva luce d’equinozio.)
Ma ero io la vera mendicante,
tu per necessità, io per troppo avere
chiedevo che qualcuno mi spogliasse
del troppo che mi faceva peso.
L’amore lo sapevi dall’assenza,
non di cosa stata e andata via,
ma come di avvento sempre rimandato.
Era quel buco, quella carezza muta
al centro della nostalgia,
quel desiderio confuso di poter mettere il cuore
nel cuore di un altro.
Per questo lasciavi che la tua anima di tufo
passasse sciolta in acqua di parole
nell’alveo di carta e inchiostro.
Ti saziava quel tuo parlarmi scritto
su vecchi fogli di quaderno.
Capitan Mimì, a volte, ti firmavi,
capitano di un pianeta dove era armonia,
era provvidenza e fede in un dio minuscolo
il cui regno stava tra le tue poche cose.
Un dio come un “sospeso” [1], un dio avanzato,
pregato per te da qualcun altro,
richiamato dall’altodeicieli da una preghiera ingenua.
E torno su di te per ridarti fiato
e un corpo meno stanco, due gambe nuove nuove
per proseguire qui tra noi il tuo cammino.
Tiro a me il tempo come fosse una tovaglia apparecchiata
e tutto si raduna sul bordo, in bilico,
pronta la mia memoria scorticata a tutto raccogliere e salvare
quanto non è stato consumato,
quanto non è avariato nella dispensa di ricordi.
E molto lo capisco adesso,
adesso è chiaro il tuo apparire dietro il parcheggio
e stare lì a guardarmi invaghito
non di quello che di me vedevi, sapevi,
ma di quello che di me ignoravi.
Lo so ora che sempre meno
somiglio a Eva Kant come fantasticavi tu.
(I fumetti e le riviste te li passava Sergio,
il giornalaio, e li leggevi in piedi,
poggiato alla transenna tra la fermata del 671 e l’edicola).
Lo capisco ora che ho rallentato il passo,
ora che si spolvera le mani sul mio viso il tempo.
E se non posso più chiederti perdono,
né tu puoi più accusarmi, perdono lo chiedo a me
per la mia assenza dalla stanza 25
e per averlo saputo da un cartello sulla ringhiera della metro,
da cui qualcuno ti ringraziava per il tuo sorriso,
per la tua presenza vivace e discreta.
E ti ringrazio anch’io, adesso, per il bene che sei stato.


[1] Quella del caffè sospeso è una tradizione dei bar di Napoli. Il cliente lascia un caffè pagato ‘sospeso’ per il povero che lo richieda.

*
Va via carica di buste piene la ragazza, bella, mora, formosa
(lavora in un’agenzia matrimoniale mi ha detto).
Potevi portarti un carrello per la spesa,
avresti faticato meno, le suggerisco
e lei sgranando i begli occhi scuri,
no, mi risponde, non è sexy!
Rimango muta e penso che nessun uomo
per la strada avrebbe notato il carrello,
mentre lei si allontana ancheggiando sui tacchi alti.

*

Sbadiglia ancora alle sette e quaranta via Appia
punzecchiata dai becchi dei piccioni,
uniche presenze prima dell’uomo,
in calzoncini corti e canottiera,
che da una panchina davanti al “Maestoso”
mi chiede qualche spiccio per le sigarette.
Quattordici agosto domenica.
Stringo cuore e denti
mentre le informazioni stradali
su esodo e controesodo
mi danno il buongiorno da sopra gli scaffali.

*

Mi tiene a bada la luce, l’elettroluminescenza del neon:
sempre la stessa intensità, senza sfumature o cedimenti.
Persino le ombre se ne stanno zitte zitte,
ben raccolte sotto i piedi delle cose.
E zitta zitta me ne sto a placare la me, dentro,
che preme e scalcia. Chiudo gli occhi, allora,
e la conduco tra le stanze della sua casa,
tra gli oggetti inanimati, immobili, in attesa nell’assenza.
Il quaderno sul tavolo, la penna, il ticchettio dell’orologio in cucina,
il copriletto rosa, la bambola di Arianna sul divano,
il cavallo a dondolo a riposo senza le spine di Damiano.
Le mostro il raggio di sole che a quest’ora
s’insinua tra le persiane accostate e lambisce la libreria…
E sento che piano s’acquieta, si calma, rinasce.

*

Era una consolazione per Gigi – lo scopettaro –
chiamarmi ogni tanto al telefono la sera,
a dire a parole quella solitudine
che gli galleggiava negli occhi durante il giorno
e pure se diceva le femmine so’ peggio delle donne
mi si offriva come sposo. Gigi in giro con l’apetta
a vendere scope, spazzoloni, secchi.
Gigi che mannaggia al core della gallina, rideva
senza denti, senza riso. Gigi magro, prosciugato dalla vita,
andato via senza commiato.

*

E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole,
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come un cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.


***

  Gestazione dell'addio

   a Valentina Cavalli*


Impossibile pronunciarla
quella parola; ma forse
si poteva farla risuonare”
(Marguerite Duras)



Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest'aria
che non riesco più a respirare.
Trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall'ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
Trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero di te ed io,
quella che dice l'amore,
quella che m'è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
campana che suona
tamburo che rimbomba.

Non sanno che non è solo il corpo
che m' hanno profanato
ma tutta tutta intera la vita
che il corpo ricco di messi e bello lo sentivo
e adesso non è più mio e mi sta addosso
come guerra, come piazza di mercato
dopo un attentato.
Corpo estirpato, corpo incolto,
concesso alla mancanza
e se Dio esiste in me non sento più il suo alito
e sono polvere alla polvere già ritornata.

Orrore e scempio di me in quell'ora che eccedeva,
cadeva a capofitto nella colpa
di essere stata vittima per caso, per genere,
per la distrazione di un tempo rinnegato all'innocenza
quando forse quel giorno un segno c'era stato
ma non l'ho saputo interpretare,
né serbo nulla come se mai l'avessi vissuto
né fosse stata mai la vita,
prima.

C’è quella notte che era bella
e le stelle sì quelle le ricordo
anche se poi ho chiuso gli occhi
li ho chiusi forte troppo forte forse
perché è sceso fitto il nero
e m'è rimasto dentro, non è più andato via
e la terra s'è aperta e sono sprofondata.
Proserpina rapita e risputata
in un tempo tumefatto fatto arco di tenebre
sopra un vuoto sotto cui scorre
il nostro stare separati e contigui.
Negata alla cura e alla pietà
non so di me altro che questo io slegato
questo viso che non so più guardare.
Non mi sono mai saputa immaginare diversa,
altra da ciò che ero e ora non mi riconosco,
non l'ho saputo per questo non mi perdono
né perdono loro che perdono non me l'hanno chiesto!

Sei anni a fissare un silenzio ostile, avaro,
a guadare la mia anima per ritrovare l'asciutto di un pensiero
salvato dalla mareggiata che salvasse me.
Sei anni sepolta viva
tessendo l'unica veste possibile
per i miei fianchi sguarniti
se poco è ciò che posso indossare
se non sono riuscita a togliermeli di dosso
quelli che mi hanno disfatto il nome
fatto un nome sbagliato che a nulla mi chiama
e sto gravida di risposte inadeguate.
Sei anni saccheggiata a poco a poco
ogni attimo una formica
a portarsi via un pezzetto di me,
così ho dimenticato che fui bambina un tempo                                                                          
e dei bambini avevo il coraggio                                                                      
il vantaggio di non sapere com'è il mondo
ma ora disincarnata e senza incanto, consumata dalla nostalgia,
nella testa non sento altro che lo scrosciare
di un'acqua torbida,  goccia che scava il vuoto in me
- cuore del nulla -
a insidia di polsi e di caviglie
a resa di memoria e di ricordi.
Incredula è poco a dirsi
perché il cuore s'era preso tutto lo spazio
e le ossa scricchiolavano
era Adamo che si riprendeva la sua costola
e mi lasciava come piccola cosa increata.
Incredula sì, ma nelle narici mi saliva l'odore
del sudore e del fiato, l'odore acre
di sterpaglie bruciate sulle carni in fiamme
e mi intorpidiva, narcosi di vita livida
e senza più metafore a farne bello e alto il senso.

La nascita è distacco,
la vita un maldestro rammendo
ma questo nuovo strappo
con che lo posso ricucire?

Al mondo non c'è più una parola per me,
una parola il cui peso di consonanti e vocali
sia remo e timone per me e-stremata, tradita
gettata lontano e senza più racconti
attraverso cui raggiungermi
da quando le mie grida e il pianto hanno attraversato muti
quelli che mi violavano, mi derubavano,
saccheggiavano il mio ventre, deturpavano il mio volto,
si spartivano le vesti della mia anima.
Lì ho cominciato a morire,
lì è la mia vita ad essersi incagliata
estraneo scorrere senza durata
un fiume fermo s'è fatta e fermo è il sangue nelle vene.
Ne c'è più un luogo, né una strada che possa ridarmi il viaggio,
il passaggio verso tutto ciò che pulsa e può produrre gioia.
Come camera ardente il mio cuore in cui giace in solitudine la bellezza
poiché nulla è indipendente dalla percezione che ne abbiamo                                 
e quando è un insulto il nascere irredento di ogni giorno
e non più dono, grazia, persa è la lungimiranza,
la predizione dell'oroscopo una cosa terrena
senza la complicità delle stelle.

Non è bastata l'aria, né questo suono incessante nel petto
per me viva dentro stagioni sfuggite al predicato terrestre,
declinate nella fragilità degli alveari e
senza voce alcuna che non sia questa che dentro mi bastona.
Terra d'esilio il mio respiro umiliato,                                                                                                                                                        
orfani i miei occhi privati dell'amicizia del mondo,
sole le mie mani sottratte
dall'alleanza che lega il fiore e l'insetto,
nudi i miei piedi perduta la calzatura
per l'affiatamento con la terra.
Avevo un orizzonte prima, avevo una lingua
ora fatta paura e di nulla più misura
- gergo amaro che non m' accoglie al pieno senso delle cose
e dell'esistere sono persa ai sensi e alla ragione.

Lo dicono danno biologico, danno esistenziale
la mescolatura d'ossa, di muscoli
di bile e cartilagini, di tendini tagliati
pestati nel mortaio del mio cuore
caduto dalla tasca del tempo
ansima come qualcosa di ammutolito
che non torna a farsi suono, parola
ma batte nell'amen degli agnelli.

C'è stato un tempo in cui non invidiavo
agli uccelli il volo perché a quelli della mia specie,
pensavo, è dato un volo che non ha bisogno di ali
né ha approdi certi e per questo è tanto più prezioso
se per noi a volte il cielo scende a farsi terra
distante lo spazio necessario
per il libero compiersi del bene e del male
attraverso l'opera delle nostre mani
eppure incapaci di  scegliere da che parte stare
noi arresi alla mediocre fragilità del mezzo
- né buoni né cattivi.

Condannata a raccogliere ciò che non ho seminato,
patisco la migrazione della coscienza
da un punto all'altro del mio dolore,
sfuggo l'ordine prestabilito della natura                                                                  
come l'universo in fuga dall'origine.
Accuso la ripercussione del colpo,
la decomposizione della luce
dentro la pietra calcarea degli occhi.
Tutto, senza amore, si fa lontano
in dissolvenza, tutto è guerra e odora di finitudine.
Per questo non sono vile
se è da tanto che penso di restituirla
perché non so farmela nuova la vita,
perché non fa più per me né io per lei.
E' altro e altrove ciò che mi sottrae a questa pena
e non ha preghiera, né un dio da invocare.
Cupio dissolvi - partenza irregolare,
in restrizione di confine e di speranza,
in calo di sentimento e di stupore.
Complice la funzione complementare del male
scavo un varco nelle mura di questa prigione
con un cucchiaio sottratto alla mensa dei vivi,
palmo d'acciaio su cui navigo lontano dal mio futuro.
Oltrepasso il dubbio, raccolgo il tempo mietuto
stacco i piedi da terra e dondolo

                                       motum
                  pensilem
                                  amant                                                                            

al ritmo spezzato del fiato:                                                                              
altalena naviglio che conduce al cielo 
rito propizio al rinnovarmi altrove a nuova infanzia.
Culla, dondolio e ninna nanna al mio sonno d'addio
ai lombi tesi al balzo, alla spinta.
                                                                                                                       
Perdono chiedo a voi che m'avete amata
perdono! ma la mia anima lacerata più nulla trattiene
da tutto è trapassata - assolvetemi!                                                                                                                                                          
come io mi assolvo nella morte ch'è di tutti.                                                     
E perdono chiedo pure a questa corda                                                              
alle sue fibre vegetali strette strette
legate per legare, ne snaturo l'uso
me ne orno per slegarmi
ne faccio scandalo, inciampo nella mia fine
e non c'è riparo a questo né riparazione.


Segni fragili siamo, vulnerabili e per questo belli
chiamati alla bellezza, ma troppa è la carne da attraversare
grande il mistero di questa soglia opaca e poca la luce fraterna tra noi.
Così la mia morte sia un muricciolo di pietre bianche nelle cui fessure
piante e lucertole trovino riparo e le creature umane
un poco d'ombra e di ristoro e il vento ne faccia strumento
per un nuovo canto.


                                                                                                                                                                                                                                      







* Torino 12-7-2008. Si è impiccata a una porta in casa sei anni dopo lo stupro. Non era riuscita a dimenticare l'incubo. Valentina aveva 23 anni, quando una sera del mese di giugno del 2002 tre ragazzi italiani la violentarono davanti agli occhi del fidanzato nell'angolo buio di un parcheggio a Milano. Gli stupratori sono stati condannati in primo grado e in appello, ma non hanno scontato neppure un giorno di prigione, perché incensurati. Il terzo ragazzo, che quella sera era rimasto in auto a fare il palo, non è stato condannato.