giovedì 14 aprile 2016

Memoria e coralità nella poesia di Nino Iacovella

Presentiamo Nino Iacovella, una selezione delle poesie contenute nella raccolta Latitudini delle braccia che per noi diepicanuova ha assunto un significato importante per molti motivi, molti di essi sono contenuti nella prefazione di Alessandra Paganardi dalla quale riportiamo un passo decisivo della sua lettura dell’opera:

(…)“La poesia di Iacovella è civile soprattutto in quanto non si chiama fuori dalla Storia. Il potente verismo dell’autore non è mai asettico, un rischio corso invece dal verismo letterario tradizionale: Iacovella si assume per intero la responsabilità di un passato non scelto, spesso neppure vissuto, che nel bene e nel male preme nel suo sguardo quale inestinguibile eredità transgenerazionale. E’ il “passato che non passa”, il pegno heideggeriano dell’essere gettati lei mondo. È la serie di fotogrammi ideali che fermarono i gesti, le rinunce, i limiti da cui siamo stati forgiati, e che soltanto in apparenza sono andati perduti: come un’acqua corrente essi sono arrivati alla nostra generazione, e ancora scorrono verso le successive.
«Anche oggi sento i tonfi, / le risa dal quinto piano.» (pag. 76). I luoghi li custodiscono; un rabdomante particolare, il poeta, li dissotterra, spesso cogliendo il dolore nascosto di uno sguardo o di un’esitazione: «A volte torno quel bambino che piange / quando si spegne la luce, / e rivedo mia madre nel dubbio: / avrà fatto bene a non nascondermi la paura / a farmi vedere l’oscurità, il buco nero del corridoio / dove tutti sappiamo bene che il lupo / spalanca ancora le sue fauci» (pag. 119). Ogni cosa, proprio nella consegna del silenzio, trasuda memoria: le mura delle fucilazioni, i boschi delle trappole e delle fughe, un paese intero in ginocchio di fronte alla madre che passa reggendo il cadavere del figlio ucciso in guerra. Una scena corale :he neppure la Pietà michelangiolesca ha fermato nella pietra e che  il poeta può, anzi deve focalizzare: se  la scultura sorge idealmente già integrata dalla fruizione collettiva del pubblico, la poesia, all’opposto, nasce marchiata da un peccato originale d’intimismo, che la ricerca di Iacovella intenzionalmente taglia e supera. Così ti ho tenuto stretto lungo il percorso / sino alla porta di casa // senza dire una parola / senza alcun pianto // Avevo quasi perso l’uso delle braccia» (pag. 44). Il poeta, grazie al lungo esercizio di uno sguardo meta-individuale, può parlare all’unisono con i protagonisti di vicende anche molto remote, fino a immedesimarsi totalmente con loro (lo vediamo nei versi appena citati); oppure, come in molti altri testi di questa raccolta, può divenire parte in absentia di una coralità che, proprio come la memoria, passa e rimane.” (…) Alessandra Paganardi.



dalla sezione  La linea Gustav

Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati

Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati

E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)

Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo

                      ***

Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un giardino
dove nitido si scorge il filo spinato

A stringere questi nodi di memoria
è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori a terra,
far finta che non siano solo sangue

Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su colpo,
il battito sulla raffica

Del cuore rimane un proiettile irrisolto,
una traccia murale sfarinata.

Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa ancora
dell’attesa breve dei fucilati

                       ***

Nel momento della ritirata tra le lenzuola
con i corpi arrotolati che si sciolgono l’un l’altro
tra le pareti lisce, alte come barricate,
la finestra è un’incursione della notte
che
me ìe mostra la prospettiva d’assalto

Quando è il momento di chiudere la persiana
la rotazione del cardine mi dà ragione, sgrana
come i denti dell’obice puntato sulle nostre vite

Il sogno di mio padre è un’allerta:
fai scorte di viveri,
ti raggomitoli in posizione fetale

Come se un bombardamento finisse,
siamo stesi con le mani intrecciate
e le bocche a mordere il cuscino

Questa notte, se la mia presa sarà forte
più lunga di un abbraccio,
è perché ho sognato che ti tenevo a stento
mentre i colpi di mortaio sibilavano in aria

Vedevo l’ospedale da campo che si allontanava,
sembrava irraggiungibile: eri ferita come mio padre
e io non volevo lasciarvi morire

                               ***

Sotto il cielo dell’estate
tra i piani azzurri della città
è come se il mare fosse rovesciato
e avesse illuso con la brezza la litoranea

Ma basta poco per cambiare aria
minare al cuore la bonaccia

ricordare quel giorno del millenovecentoquarantatre
(letta così quella data, sincopata e tutta d’un fiato)
richiama nell’aria i colpi di mitraglia

Mi butto a peso morto sull’asfalto

Sulla testa sibilano come proiettili
le traiettorie di volo dei gabbiani

                            ***

Incursione aerea del ’43

Questa terra accorcia i respiri,
reclama i passi dei vivi a piedi nudi
come se non dovessero avere peso
per stare qui, calchi sull’erba
destinata a sfarsi

È il sottosuolo della lapide
dove crescono ancora radici
come braccia

Nell’eterno crollo del rifugio stanno i corpi
tra gli strati di memoria, rannicchiati come bulbi
che stentano a rinascere

Per questo siamo noi a sentire
il freddo del silenzio,
e baciamo il marmo con le dita
come per toccarvi

                           ***

Martiri del 6 ottobre

Abbiamo provato a chiudere gli occhi
di fronte alla lapide, abbracciato l’albero
per il tronco, come a voler sciogliere
la corda che ti sorreggeva morto
esposto nudo agli occhi della strada

E ora che qui non c’è più nessuno
ci facciamo coraggio per ricondurci al tuo corpo,
alla lama che scavò gli occhi e ti sventrò a vivo,
come da noi non si faceva nemmeno ai maiali

Rimaniamo arresi a un silenzio sconosciuto
ritracciando il percorso del dolore,
nella città che insorse a mani nude
pur di venire a liberarti

                                ***

Martiri del 6 Ottobre

Sai che non riesco a vedere il silenzio,
a testa china di una città che ci fa strada,
che ci vede insieme io e te
Enzo, mio figlio che torna per sempre
tra le braccia della madre

Cosi ti ho tenuto stretto lungo il percorso
sino alla porta di casa

senza dire una parola
senza alcun pianto

Avevo quasi perso l’uso delle braccia        

                         ***
                                                       Come sassi lanciati sull‘acqua                                                          
 che affondano dopo breve corsa 
  le figure si allontanavano
svanivano nell‘aria trasparente
GIAMPIERO NERI

Linea Gustav

Dai primi passi nei vicoli, dalla nuda pietra
presagivamo la veduta: la montagna, la strada,
prima ancora della luce

Cosi era l’alba del Lunedì di Pasqua,
con le nostre madri rimaste in un’attesa
chiusa all’altezza dello stomaco, come se noi
davvero fossimo stati capaci di partire

Quel giorno erano così belle le nostre ragazze
nei loro jeans attillati, e non bastava la bellezza
dell’orgoglio per desiderarle,
loro avrebbero già scelto con chi stare,
mentre noi ragazzi dentro buste di plastica
avevamo già più vino che pane

Prima di Bocca di Valle tagliammo la strada 
sotto i piedi una terra che giaceva
come se un percorso stesse per rinascere

Arrivati alla Cascata qualcuno prese coraggio,
immerse il corpo nel freddo dell’acqua
mentre dal bordo sentimmo così vere le sue ossa
il tratto dolente dei denti serrati

All’addiaccio abbiamo diviso le cose da mangiare,
le sigarette, il vino ancora caldo dalla fatica
l’abbiamo bevuto come fossimo stati
oltre la cima degli alberi

Poi nei pressi del piccolo lago scorgemmo
la pace delle rane
lì dove buttammo le pietre
per vederle saltare dall’acqua:
come sprofonda a volte il masso senza colpire
altre volte c’è il sangue che torna a galla,  
e a chiudere gli occhi non puoi
che immaginare lo scempio,
mentre a riaprirli è come sperare
che tra le proprie mani non ci sia tutto quel vuoto,
che la pietra sia ancora lì, come prima di colpire

In mente ora ci sarebbero i ricordi dei padri,
doveva essere stato così quando
bombardarono le case:
i piloti alleati come un dio accecato dall’alto
che tiene il cielo tutto per sé, oscurandolo
alle piccole creature

Chiaro era il cielo di quell’aprile
quando siamo stati figli e lo saremmo stati
sempre, di coloro che toccarono la guerra
a mani nude prima di saltare per aria,
delle madri rimaste tumulate
nell’esplosione del rifugio,
di corpi rimescolati nella terra
pur di vederci rinascere

E sulla strada del ritorno le ragazze
si tenevano strette al freddo della valle,
le teste poggiate sulle spalle
di chi non si era arreso alle bevute, i sopravvissuti,
quelli che non erano rimasti sull’erba a vomitare


giovedì 7 aprile 2016

La Materia di Britannia
poema epico di Paolo Borzi


Pubblichiamo oggi, con una breve nota introduttiva dell’autore medesimo, due parti del suo poema in ottava rima, La materia di Britannia, e un brano con accentuati tratti danteschi facente parte dello stesso poema, come un esempio possibile di ciò che intendiamo per epica nuova. Con quest’opera, Paolo Borzi risale infatti a una delle fonti della narrativa e della poesia occidentali in epoca cristiana: il ciclo bretone. La materia squisitamente epica viene ripercorsa e riproposta come grande metafora del nostro tempo. Il testo, tuttavia, è anche un viaggio nella tradizione colta e popolare della lingua italiana e nei suoi stili, nella convinzione che un poeta o uno scrittore hanno a disposizione l’intero patrimonio linguistico di una civiltà, sia da un punto di visto sincronico sia diacronico (f.r.)


Propongo ai cari amici di Epicanuova 16 (più un extra iper dantesco) delle 453 ottave del mio poema epico sul Ciclo Bretone. In ogni mio libro ho sempre proposto un’Epica diversa, in prosa e-o versi. Ma inserire un poema cavalleresco in ottave nell’Epica Nuova è una sfida quanto mai stimolante e scabrosa; anche per questo ho proposto di connotare al plurale (Epiche Nuove) il filone neo epico che staremmo tutti insieme  promuovendo: per poter inserire-tra le altre-questa scandalosa modalità, senza che la decisa aderenza alla Tradizione la possa mettere in una posizione esemplare, o al contrario insostenibile. Una valenza esemplificativa, può nondimeno essere fornita per elaborati anche sostanzialmente diversi, che vogliano comunque adottare schemi simili (stanze, assonanze etc.), ma con maggiore libertà: un “format-seme” per sviluppi anche, magari solo in apparenza, radicalmente difformi.

La scrittura si propone di rendere tutte le suggestioni storiche, allegoriche, psicologiche e psicagogiche di questo materiale tradizionale, che proprio nella “connivenza” di queste motivazioni sfonda a mio avviso il muro del tempo. La versificazione, chiusa anch’essa in misure e stanze tradizionali, rinuncia però a ogni patina di anticaglia, ivi comprese le tronche funzionali alla metrica; e quasi inverte la proporzione tra endecasillabi compiuti o con enjambement. Il criterio di massima è infatti quello di mettere la rima ogni 11 sillabe, quasi prescindendo dalle chiusure di senso. La presenza di una chiusura, però, vorrebbe rendersi assai preziosa quando si adottasse  la “perentorietà” di certa epica classica, che va certo filtrata da un sentire diverso, ma recuperata quando necessario.

 L’Epica, vecchia o nuova che sia, non può rinunciare a una visione ideologica: in queste sole quattro ottave le cose impellenti da dimostrare, o meglio, mostrare, sono 3: Il Ciclo Bretone si pone, nella sua essenza, come “quinto vangelo”; il Ciclo Bretone si pone come “Odissea ulteriore”; il Ciclo Bretone parla di noi moderni a noi moderni. L’autore non intende discutere questo, è comunque la sua scelta, al punto che “si sbriga” a dirlo con poco: è un’altra sfida, quella d’una poesia narrativa che dice tanto con pochissimo, perché la qualità del distillato è determinata dalla natura e dalla mole del distillando.

Un accenno sulle assonanze: esse sono rarissime, incidentali e facilmente rimuovibili. Sono state lasciate, entro certi limiti, per “onorare” la natura abbastanza rapida e fluviale di questa composizione, articolata però su una griglia strutturata da decenni di studio e di ascolto del canto a braccio.

Dalla Tavola di Merlino

53
Si canta qui in ottave del profeta
che mise in viaggio Ulisse, non per Sale,
ma per gli abissi interni del pianeta.
Del remo fece Spada inflitta al Male,
estratta poi da un sasso fatto creta
da un Perdente invincibile: un regale
discepolo, sottratto a cure urbane
per farne il Re delle leggende umane.
54
Rimase al sasso quella feritoia
che compensò la Breccia nel Costato
e l’ astuta perfidia armata a Troia,
perché l’ ingegno umano, nel Crëato,
faccia progressi senza che si muoia.
Vinse Vortigern, quel tirannizzato
crudele siniscalco, coi pagani
facente patti non corretti e umani.
55
L’ Anglo-Sassonia germinava certo
com’ erba tra gli sbreghi di quel Vallo
al tempo già un magnifico reperto.
Lui già sapeva che non c’ era stallo,
il tempo per un secolo coperto
da vivacchiarsi in gesta da rimpallo.
I semi lui mesceva coi rottami
del mondo antico e nuovo, e i tronchi e i rami
56
del Fato e dei Problemi, tra reinnesti
ricomponeva in totem della Vita;
senza scartar la linfa dei furenti
sciamani di Sassonia, che in partita
vincevano con alberi perdenti.
Così l’ Europa al mondo è partorita:
d’ ogni virtù civile germe e aborto;
e nave ancora in viaggio senza porto.


Nella Tavola d’Amore abbiamo in primo luogo l’incontro tra Lancillotto e il Cavaliere Nero. Il Tripode aureo di questa Epica: Eros-Politica-Mistero (con confluenza in quest’ultimo del turismo rituale e del contatto con lo Straniero e l’extra ordinario, secondo il modello omerico) è qui a pieno regime. L’ Eros deve fomentare e non ostacolare l’opera di Giustizia; mentre all’ Avventura è affidato il compito di disconnettere o connettere tutto: emblematica-nella terza parte-la citazione dell’episodio di Circe, dove trasformarsi in maiali e perlustrare da vivi l’Ade per incontrare Tiresia,  si connettono come esiti potenziali dello stesso mitologema.

Ma preme far notare l’impatto degli atti e degli ambienti nella versificazione: l’ottava diviene sempre meno un abababcc d’endecasillabi per lo più compiuti, e si popola di altre misure- volendo, alfanumerizzabili-per rimandi interni, parabole, connessioni in diagonale, verticale e orizzontale. Il tutto a beneficio-si vorrebbe-d’una certa teatralità cinetica e cinefila, e d’un allegorismo fantastico al limite della pirotecnica. Il virtuosismo è ben voluto (osservazione divenuta quanto mai  rivoluzionaria), ma solo se interno a un lavoro non sostanzialmente virtuosistico. Volendo istituire una “corrente”  per questo ponte tra Tradizione (epica) e Avanguardia, potremmo parlare di “aristotelismo barocco”: un passo tra Tasso e Cervantes; una rivisitazione concettuale e psicoanalitica del folklore (prosciugato con l’andar dei secoli dalle accademie colte); uno sguardo fisso, con prospezione utopista, al presente.

153
E’ Tavola d’ Amore qui imbandita.
Amor che tutta avvolge la Materia.
Bruciante amor sodale amor: ferita
che svuota in spossatezza deleteria;
ma è landa, a volte, piccola e fiorita
come la nostra tra La Spezia e Imperia:
stigmate in pelle d’ arte trovatoria,
parentesi tra tomba e tra baldoria.
154
Laddove Don Chisciotte nei mulini
vide giganti, il Cavaliere Bianco
i mostri vede, quelli a noi vicini,
quelli che spesso vivono nel branco
qui proprio a fianco; e i démoni in mattini
vede, laddove un cavaliere stanco
s’ è perso in una forza incantatrice,
tra gli acquitrini e il volto d’ una Attrice.
155
Il Potere feroce d’un tiranno
l’ annienta combattendo con fierezza;
ma poi, caduto l’uomo, resta il danno,
la sordida radice, una schifezza,
un pozzo senza fine di malanno...
che chiede, per mondarlo, quell’ altezza
che dà una conoscenza più sottile,
nutrita nel profondo, e poi civile.
156
Movendo per la Guardia Dolorosa,
fetida corte in cui l’ interno è esterno
(e brutta dunque quanto ben graziosa
quella d’ Artù, votata al buon governo),
a lungo si fermò su un’ armoniosa
sponda, indugiando, prima dell’ inferno
che l’ attendeva, ed era pronto, in quanto
il maniero era noto in ogni canto.
157
Fantasticava di Ginevra, quando
nell’altra riva vide un duplicato
di sé, ma in armi scure, che in rimando
alle sue mosse,  lo imitava. Un lato
come quell’ altro lato già sembrando
(pel verde in stile inglese e vallonato)
col Bianco e il Nero identici in moine,
pareva che uno specchio senza fine
158
fosse a metà del guado, in tutto il fiume.
Fece una specie di saluto al Sole,
com’usa il fricchettone al primo lume;
e il nero,  uguale, e in mezzo a eguali aiuole.
Nacque il sospetto, un pallido barlume,
d’ essere preso pei fondelli, e vuole
il Bianco avvicinarsi, e il Nero pure,
anche se spinto da ben altre cure.
159
(San)Michele osserva i due figuri, al flutto
semisommersi, nel cresposo argento,
tra verdi vallonati eguali in tutto.
A un videogame, pensò per un momento:
come se fosse un futurista putto
e un monitor il mondo, acceso o spento
se scorgi o meno fregi artificiali...
Precognizione secca da immortali
160
che l’ ali gl’ increspò, mentre le mani
pigiavano il comando immaginario,
come d’ un flipper, con effetti vani;
sotto è l’umano, un campionario vario
di nani: un quarto déi tre quarti inani
bestie disposte a caso da un Sicario
che è il Caso stesso, nell’ umano messo
perché faccia progresso da sé stesso.
161
Il Bianco e il Nero sono faccia a faccia;
non sa ser Lancillotto se è una Prova,
un gioco speculare che dispiaccia
o piaccia, hai da capire cosa cova
sotto un mistero; o se era preda in caccia
d’ un beffatore in nero, che ci prova
a irriderti per poi fregarti dopo,
facendo come il gatto con il topo (…)

Nel prosieguo Lancillotto sconfigge il Cavaliere Nero, ma rimane turbato: sarà stato individuo a sé, o un fantasma significante la sua stessa condizione di innamorato ciondolante sulla sponda d’un fiume? La ninfa Saraide interviene sostenendo che quello spettrale “anti Lancilloto” era in realtà entrambe le cose: innamorato d’una Dama dei Ghiacci, voleva guadagnarsi l’eternità accanto a Lei, ostacolando i Cavalieri buoni che volevano destituire un tiranno, alleato di detta gelida Signora. In buona sostanza, Urbano, il Cavaliere Nero, aveva per amore optato per la parte sbagliata, pur essendo nell’intimo identico al Cavaliere Bianco che voleva appiedare. L’insegnamento sul non dover mai fare ciò, può sembrare piuttosto grossolano e sempliciotto… ma chi sa se a furia di appiccare il fuoco agli abbecedari di Pinocchio, in tutte le loro edizioni, non sia tornata  anche la necessità di fondamentali tanto “naif”.

In un fraterno ma anche quasi romantico abbraccio al plenilunio, Lancillotto e la sua sodale semidivina assistono a un volo di arpie affiliate alla Dama dei Ghiacci, che portano in un fagotto la nera ferraglia con dentro Urbano, per deporlo in un ignoto destino. Lancillotto capisce che senza di lui sarebbe diventato come lui, e torna all’Azione con questa nuova affezione fraterna per un ex nemico, aggiuntasi nell’animo.


E infatti a notte, stretti come amanti,
Saraide e il Bianco (in fondo fratellastri)
osservano la Luna, lì davanti,
bianca e gigante in mezzo agli aurei astri.
Va a mezzanotte, ronda degli andanti:
arpie reggenti cavalieri impiastri,
cicogne inverse in mondo parallelo;
e in volo adesso sul lunare velo.
177
“Saraide, dimmi,”fece pensieroso
il Bianco, che era in bianco un po’ più sporco:
“come aggirare il mio pericoloso
destino...se in Urbano mi distorco,
anch’ io sarò in partenza nel boscoso
slargo; in vitello come Ulisse in porco
mutato: e sempre è in bestia da macello.
Sono nei ranghi un Cavalier pivello,
178
“e già qui l’ antipasto è un pasto immane!”
E in replica la ninfa: “Tu domani
t’ imbatterai in un Nero detto il Cane;
e Urbano qui t’ ha dato a piene mani
il senso contro al suo: chi toglie il pane
ruba alla gente pure il suo domani.
Dunque,  con scopo di Giustizia, cresci
molto di più che al fiume assieme ai pesci.

Conclusione: questo genere di testi ripropongono a tratti una certa semplicità familiare, diremmo “pop”, e così dovrebbe e vorrebbe essere; una apparente immediatezza sempre interna, però, a una concettualizzazione acuta del discorso poetico. In un laboratorio come il nostro è quasi obbligatoria l’auto presentazione, evitando naturalmente di darsi da soli giudizi di rango e levatura estetica. Oltre a ciò, la natura di questi lavori fa sì che anche le esposizioni fornite dall’autore, poche o moltissime, possano essere facilmente rilevate, o altrettanto facilmente escluse, nel testo o dal testo, da chiunque abbia interesse per queste fattispecie e voglia prestarvi attenzione. Intendo poi con questa sommaria disanima onorare la figura intellettuale del mio prefatore, un illustre docente tanto versato per la poetica di Aristotele, quanto per il discorso critico d’Avanguardia: e il ponte che lega queste due sponde sembra proprio la “trasparenza e l’ esponibilità pubblica” del laboratorio.

Se l’Epica, qualsiasi epica, comporta la demolizione antibiotica d’ogni ermetismo residuo e di tutto il suo parentado, il genere qui rappresentato è una sorta di chemioterapia sradicante. Consigliati comunque dosaggi robusti di “anti ermetina”, per qualsiasi elaborato che voglia dirsi, a qualsiasi titolo, “epico”. Nell’Epica  non c’è alcuna  profondità che non sia permeabile; nell’epica e non solo, mi sento d’aggiungere; in poesia e altrove. Nessuna crociata contro scuole diverse, ma solo un discorso sulla coerenza di questa opzione, aristotelica ma anche hegeliana (nel senso della Fenomenologia, ovvero il “Poema” del grande filosofo di Stoccarda).

Con ciò, un certo tratto sanamente esoterico, può essere al contrario  riqualificato entro una precisa dialettica sociale, storica, e antropologica; in quella autentica “lotta di classe” che ha rappresentato nel grande passo tra l’alto e il basso Medioevo, mediante l’eresia dualista cataro-albigese,  molto influente in Italia nella nascente letteratura nazionale, dalla Toscana alla Sicilia. Il dualismo di questi, tendenzialmente iconoclasta e anti cosmico, ha prodotto una reazione termo culturale nel contatto con il folklore vitalistico (se pure anch’esso endemicamente dualista) e le gilde d’Artigianato dalle classi subalterne, da una parte, e proprio con la poesia, dall’altra. Tale “positività negativa” (una specie di ossimoro anche teologico), così tragicamente feconda come aspetto infra religioso della Cristianità, ha creato un gioco irripetibile, stavolta interreligioso, con la portentosa intelligenza islamica ed ebraica,  influente fin dentro le prime università, che fiorirono in quello che viene giustamente definito il “Rinascimento del 12° secolo”: sgozzato da una sua precisa “controriforma crociata”,  e che rimane un “rimosso utopistico” il cui “ritorno” potrebbe molto riguardare svariati temi a noi cari, non ultimo quello trattato in questo prezioso blog.

Alto e Basso (il Medioevo ma anche il linguaggio), folklore e università, rimescolamenti dottrinari, contaminazione interculturale, teorie d’emancipazione anche dei e fra i sessi, corti “illuminate” (molto quella al femminile d’Eleonora d’Aquitania), hanno costituito quel precocissimo seme, che una violenta ondata di pece di ignoranza e di sangue ha sepolto per quasi tutto il 13°, appunto con le famose “crociate interne”. Dante e la Commedia altro non furono che il geiser potente di quella materia compressa, che ha bucato l’infernale placca e avviato quello che sappiamo, comprese molte delle ragioni del nostro discorrere.

Concluderei proprio suggerendo ai notevolissimi intellettuali, cui dobbiamo questa stupenda  iniziativa, di considerare loro stessi il rapporto che una Epica Nuova può avere col Sommo Poeta, col suo periodo storico e con quello di cui il Vate fu maturissimo epigono, ovvero a mio avviso proprio il 12° secolo. E quanto un’Epica Nuova, o per lo meno una della epiche nuove, possa avere un rapporto con la “sapienza dei subalterni”, provando a riaccendere la miccia sul folklore  innescata da Gramsci, e ripresa a mio avviso dal tardo Pasolini, “dualista ed ellenista, parabolico e protestante, canoro e atroce”, di Petrolio. Ma soprattutto, imploro dalla Redazione i bellissimi testi di cui Essa, in svariati membri, è capace. Con affetto gratitudine e ammirazione,

Paolo Borzi

EXTRA

(…)
Partendo a caso, adulterai del conio;
ma non come a un falsario si conviene:
più indemoniato all’ arte del demonio,
il falso già all’ origine, con piene
virtù legali, a Tizio ed a Sempronio,
versai sapendo che contava niente.
Ed estorcevo il sangue a quella gente;
partita e persa in guerre per promessa
o pretesti inventati, e in caso uccisa
con un invito a cena oppure a Messa.
Son traditore, in formula precisa,
di ospiti, d’ amici e per commessa
benefattori pure. Ho poi derisa
la brava gente e i poveri di Dio...
e calunniata a un modo tutto mio:
spargere il dogma della nefandezza
celata in ogni uomo:  quale sia
non fa un delitto solo per pochezza.
N’ ho fatti lapidare, per la via,
inventando di loro ogni schifezza.
Ai barbari insegnai l’ ipocrisia:
clericalismo di facciata; e ho appreso
l’ uccisione rituale d’ indifeso.
Tradii due patrie: quella ancora in germe,
per averne il controllo generale,
promuovendo puttane e menti inferme;
e quanto ci restava di imperiale,
rendendo Roma ai barbari più inerme.
Mescendo sempre il peggio col banale,
mi corruppi talmente i sentimenti
da copular tra morti ed escrementi.
Necrofilo pedofilo e omicida,
capisco qui che il Male, dominando,
è alieno: l’ aria infatti è malicida,
e l’ uomo che è malvagio, respirando,
ne contraddice la continua sfida;
Lo capì Giuda quando, già impiccando,
gettò i baiocchi, e chiusesi la strozza
per non riaverli nella landa sozza.
(…)

Da “la confessione di Virtigern” all’Inferno