lunedì 19 settembre 2022

Le prose e i versi inediti di Lucianna Argentino

 

Abbiamo invitato Lucianna Argentino a proporci una scelta dei suoi versi accompagnati da personale commento.


Se all’inizio del mio percorso esistenziale e poetico la poesia fu un rifugio in cui potevo sentirmi libera di essere me stessa, di dare voce alla malinconia, al senso di inadeguatezza, di solitudine che rendevano inquieta la mia anima assieme al timore di crescere, mi resi ben presto conto che la poesia era tutt’altro che un rifugio era, è, anzi uno stare esposti e un esporsi alla vita, alle sue ombre, ai suoi abissi e alle sue altezze. E’ un modo di stare nel mondo con i sensi bene accesi e pronti a recepire ogni più piccolo sussurro o grido che ci viene dal mondo perché i poeti sentono che in ogni cosa, in ogni essere umano, c’è una realtà più profonda e a quella rivolgono la loro attenzione chiamati da una voce a cui obbediscono perché non possono non farlo. Una voce che vive dentro loro stessi come senso di responsabilità, di cura, di affetto per il mondo e per la parola poetica che riesce così bene a descriverlo nella sua verità fondamentale, nella sua bellezza senza negarne o ignorarne gli orrori, il terribile, ma sentendo che non ne sono gli aspetti fondanti anche quando tutto sembra indicare il contrario. Gli inediti che qui offro ai lettori sono di diversi anni fa. Quelli di “Corpo di fondo” ho cominciato a scriverli nel 2010 a un anno dalla morte di mio padre per superare il senso di mutilazione che sentivo crescermi dentro anche perché netta fu, e ancora lo è,  la sensazione, il dato di fatto, che con lui se ne è andata via una parte di me, della mia storia. Ho cercato quindi di andare più in là che potevo con la memoria, alla ricerca del ricordo più lontano che avevo di me e di lui insieme, ma la memoria ha molte diramazioni, molte strade da percorrere ed è impossibile farne qualcosa di lineare. Tra i tanti ricordi che sono affiorati nella mia mente uno che mi è particolarmente caro lo racconto nella prima delle prose poetiche perché è stato quello che in quel giorno dell’estate del 2010, ha dato avvio alla scrittura dei testi successivi. Particolarmente caro e significativo alla luce della mia relazione con la parola poetica fu il gesto di mio padre di prendere le misure della pagina bianca di quel diario, segnare dei puntini e poi unirli a formare delle righe su cui io potessi scrivere (come a dire: lo sfondo bianco, lo spazio libero c’è, ma ci sono anche delle regole - la sintassi della libertà). Quasi una benedizione paterna alla scrittura. Da quel ricordo, dunque, il mio viaggio nella memoria si è fatto un viaggio interiore anche perché non avevo intenzione di scrivere un’autobiografia (anche se inizialmente li avevo intitolati “Frammenti di autobiografia postuma”, postuma perché tutte le autobiografie lo sono in quanto l’io che  racconta e l’io raccontato non coincidono) benché, in ultima analisi, di autobiografia si tratta. Di riscrittura della vita, così come lo è la poesia. Un’autobiografia spirituale, l’autobiografia di ciò che la vita ci dona e di ciò che alla vita doniamo, di ciò che della vita vissuta rimane in noi come qualcosa di vivo che continua a respirare e a lavorare in noi. In un altro testo inedito su cui sto ancora lavorando mi chiedo, infatti, se non sia il presente a gettare luce sul nostro passato e non viceversa come comunemente si pensa, ma a ben vedere è la stessa cosa essendo passato e presente solo delle convenzioni. E così le prose di questo libro si dipanano lungo 10 anni (le ultime le ho scritte nel marzo del 2020) e da ricordi di fatti concreti si trasformano man mano in un diario di stati interiori sempre vivi.

Gli inediti di “Appunti di un canto controverso” (ancora non so se sarà il titolo definitivo, ma penso di sì) nascono al principio del 2020 quando si cominciava a parlare di pandemia. Le prime due poesie sono datate 8 febbraio 2020. In quel periodo ne ho scritte tante, con una media di una o due al giorno, stupita anch’io di questo fatto per me inedito. Non so se è stato per via del sospendersi del tempo o meglio del dilatarsi del tempo privato del suo consueto ritmo di impegni quotidiani in cui siamo sconfinati tutti con esiti diversi. Sono comunque poesie che non parlano del Covid e dintorni, ma certamente sono poesie pregne dell’atmosfera di quei mesi, di quei mesi hanno respirato la temperie (e le intemperie) e quel respiro riportano sulla pagina. Direi che il digiuno dal fare ci ha spiazzati, ci ha messi davanti a qualcosa di totalmente nuovo e inizialmente, nonostante il dolore che molti in quel periodo stavano vivendo, positivo perché ha portato alla luce aspetti e realtà di noi italiani che già esistevano, ma a cui i media non davano risalto e a cui, purtroppo, non ne hanno dato più. Si è compreso che c’è un modo diverso di stare al mondo (cosa che i poeti sanno per costituzione genetica), tuttavia è durato poco come il seme caduto nel terreno roccioso della parabola evangelica che subito germoglia, ma altrettanto presto si secca perché non ha terreno profondo dove attecchire e nutrirsi. Allora queste poesie vogliono essere una testimonianza in presa diretta direi dello spirito di quei mesi, di quello che hanno seminato in me e di quello poi che ho rimesso al mondo. Il tutto nel senso di una continuità tra la quotidianità e la parola poetica che ne ha operato una sorta di elevazione a una dimensione storica.  Facendone anche un vero e proprio luogo in cui ognuno può specchiarsi per ritrovare sé stesso, quel sé che la vita a volte rende frammentario e irriconoscibile persino a noi stessi. Perché fondamentalmente frammentaria e spietata è a volte non la vita, ma ciò che della vita facciamo o non facciamo, della nostra vita e di conseguenza di quella degli altri. La poesia, l’arte ci ricordano allora quello che in quei mesi sembrava avessimo finalmente compreso, cioè che fare va bene, ma essere è fondamentale.

 
Inediti da “Corpo di fondo”

 

La bambina guardava il padre che con un righello e una matita tracciava righe sui fogli bianchi del diario con la copertina di pannolenci rosso e un piccolo lucchetto dorato. Tracciava righe perché le sue parole non sbandassero su quel bianco che allora era terra straniera, perché la punta della penna si poggiasse su di esse e proseguisse sicura il suo viaggio. Cominciava così ad imparare che la realtà si può riscrivere, che sul bianco della pagina poteva progettare se stessa e nuovi mondi. Offrire un rifugio al tempo.

 

Piazza della Loggia a Brescia;

il treno Italicus;

il massacro del Circeo;

l’omicidio di Pasolini a Ostia;

il 1977;

via Acca Larenzia a Roma;

le Brigate Rosse e l’omicidio di Aldo Moro;

la stazione di Bologna;

 

L’adolescenza sua toccata da anni feriti da un’inquietudine sconsacrata e sterile. Miseri misteri sciolti nei liquami della decomposizione umana. Lo spirito del tempo, dallo schermo in bianco e nero, bruciava nel roveto ardente di un esodo senza patria. Lei, intanto, svernava in un’età di attese, di lavorio di fondamenta, preparava il terreno alle promesse. Si annidava all’esterno di quel male che pure ingoiava, la sera, prima di Carosello.

 
 
Conserva nelle mani le ricorrenze, le cose che sembrano andare e invece rimangono in un silenzio che non sa più dirle. Complice la vita le annoda alle parole – come da bambino suo fratello legava a un filo le automobiline e le trascinava per tutta la casa. Le tiene in grembo, sfoglia l’almanacco del suo vigile abbandono al clima della pagina e annota in margine quella verità che la lega all’ombra delle cose.

 
 
Un  tempo s’affidava alla conoscenza che degli arrivi hanno i treni più che alla sapienza che delle partenze hanno gli uccelli migratori, ma ora è a questi – marinai dell’aria – che chiede la rotta, il segreto della loro misteriosa capacità di orientarsi sulle mappe invisibili che tracciano gli esseri umani nel campo magnetico terrestre. E si chiede se poi qualcuno vorrà sapere quali alibi contengano le sue mani per le opere non compiute, per le omissioni, ma anche quanto abili siano state nel tracciare sulla pagina l’odore e il sapore della vita quando con le parole scava una verità limitata  nell’illimitato enigma del mondo.

 
  
Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano di ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.

 

Come i cani segue la traccia chimica della realtà, annusa l’odore emotivo degli umani - la paura, la gioia e ne fa traccia alfabetica sulla pagina. Scompagina il silenzio, lo attiva perché nella parola sia parola trasparente che lasci passare la luce come fa la vita, a sorpresa, quando si materializza e appare improvvisa in un giovane cervo che dal bosco attraversa la strada e nel bosco di nuovo scompare.




Inediti da “Appunti di un canto controverso" (2020-2021)

Il caparbio perdurare della specie,
innescata la sequenza di consenso,
per commozione tradì le regole del caso
e  promosse la grazia primordiale delle corde vocali
- fu quella e il suono di fiamma che ne venne
a condurci dallo spavento al canto.

 ***

La dicitura blindata delle cose
è una forma d’imperfezione
- come nei diamanti-
più preziosa della perfezione stessa.
E’ questa che i poeti cercano
col cuore rarefatto
la combinazione
di essere e di apparire
il farsi verità
di una menzogna.

 ***

Trema chi dell’abisso fa suo seme
e teme sia tenebra il raccolto,
ma poi la luce viene
a raggi o a perturbazioni
ed è una forma di limpida materia
l’amore che ne scaturisce
e sgrana le ore nell’opera del tempo
ma non è questo ad invecchiarci
è quanto tratteniamo
- tutto ciò che non lasciamo andare.

 ***

E chi dallo sconforto
a una sua quiete torna
poi tace quel tornare
ormai che sente
approdo più sicuro
l’alto mare.

 ***

Le ore - agili sorelle- scardinate dagli istanti
smarrite nel clamore degli eventi
oscillano agitate dal vento dell’imprevedibile.
Confuse non sanno a quale limite aggrapparsi
e stanno come pane avanzato
che in sé mantiene il lievito e la spezzatura.

***

 E ora che anzitempo si è attraversato
il guado del secolo
il limite inatteso del nostro abitare
ci avviamo verso la soglia di qualcosa
che più non somiglia a ciò che eravamo.

 ***

Cosa chiedere alla vita,
a queste ore scandagliate
con mani confuse, con cuore scardinato?
Adesso che si sceglie
tra chi lasciare andare e chi tenere qui.
Adesso che l’attesa pioggia è arrivata
ma non ristora l’asciutto della terra.
Non chiedere, dunque  rispondere
con quanto in ogni silenzio è respiro
- una preghiera o un canto
che di pietà sorride.

 ***

 E’ tornato maggio coi suoi deserti asili
e gli impensati vuoti
abbracciati al silenzio dei cortili
quando non c’è altra musica
che lo sfrecciare alto delle rondini
il loro garrito che rammenda l’aria
lacerata dalla paura di chi tra quattro mura
sente che la vita è vita condensata
e come gli atomi perdendo energia
emette luce. E luce allora sia
e illumini ciò che ci fa umani
mostri che non è radice il male
ma lo recide l’essere amati e amare
- l’impegno quotidiano
di chi con le parole dalle cose
estrae splendore.

 ***

Non pensare sia un caso il male
ma guarda la grazia innata
- la matrice geometrica del mondo -
e il bene che ogni giorno attende
le nostre mani per farsi carne di gioia.
Senti la gratitudine adimensionale del vivere
nell’impasto di male e di bene
del nostro circostanziale esistere.

 ***

Avremmo bisogno dell’olfatto dei cani
del loro udito o della bussola chimica
di certe specie di uccelli
per sentire la voce che orienta i nostri passi
e di un senso festivo per darle ascolto,
per non incespicare contro ore senza gloria
di luce che  scivola dagli occhi
e si coagula in un grumo di tenebra.

 ***

Se è  distanza uguale
a quella tra la rosa e il suo profumo
non temo lo stare nel silenzio
dove l’attesa è certezza del bello che viene
e del bene vivo nella materia del nostro risveglio
nel mattino imbastito di voli e del mio quotidiano
prestargli il cuore per un canto spezzato
dall’abbaiare di cani senza pietà
e ricomposto nell’attimo preciso
del traboccare delle ore
da un tempo che più non le contiene.

 ***

Davanti alla mia finestra passa il mondo intero
eppure è solo un rettangolo di luce tra due pareti
su cui al mattino sosta il sole e ha la stessa trasparenza
che si addice al vetro e allo sguardo umano
quando in esso il tempo cambia direzione
e la sua freccia si conficca nell’attimo
che geme disorientato come chi
- troppo a lungo -  ha guardato in alto.

 
***

La pioggia scurisce i marciapiedi
ma tace di che stagione è il frutto
da cui proviene l’inquieta sostanza
del nostro pensarci  un po’ più in là
sfalsati sulla linea della vita
eppure veri quando il dolore
ci piega le ginocchia.

***

Spunto la lista della spesa
ripasso a mente il necessario che mi manca
- il pane il latte le uova –
e qualcos’altro che sfugge alla penna,
ma poi dal taccuino alzo lo sguardo verso la finestra
e mi cattura il superfluo che è un necessario rovesciato.
Così da quel rovescio prendo la grazia efficace
a questo istante non predestinato
e la ripongo in quanto dell’umano è attenzione
ed è allora che ciò che sfugge, ammansito, torna.

 
***

Cospirano le mani e lo sguardo
per  obbedienza a una segreta voce
a un più alto domandare
la remissione della colpa
di non saper ricambiare la promessa
quando scrivendo sento il nemico
scorrere nelle vene
ma in esse – nelle piene della loro giustizia –
il male s’incaglia e depone le armi
eppure so che ha perso solo una battaglia.

 

 

 





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