mercoledì 28 settembre 2022

Intorno a una poesia epica dialettale: Giuseppe Cinà ci introduce al suo ultimo libro "L'alburu nostru"

 



Sul versante della poesia dialettale, Giuseppe Cinà si inserisce nel nostro dibattito sull’epica. A ridosso dell’uscita del suo secondo libro L’àrbulu nostru ospitiamo i suoi versi, sono introdotti da una riflessione che attraversa ragioni storiche della sua poesia dialettale e epica che fanno tutt’uno con la sua esigenza soggettiva di dare voce, ritmo, tono alla natura che lo ospita.

 

 Cari Franco e Paolo

(e cara Gabriella, che dal tuo salotto alimenti la circolarità delle ns voci)

da tempo avevo voglia di scrivervi queste riflessioni, da dopo la presentazione di “Lucy, reperto A.L. 288-1” e la lettura del vs ‘manifesto’ Diepicanuova.

Perché? Perché anche io avevo avvertito nella poesia la “constatazione dell’esistenza di un ‘sentimento’ dell’epica “, ma l’avevo avvertito in primo luogo in quella dialettale siciliana. Certo, avevo letto, come molti di noi a partire dai vent’anni, Pavese e altri autori filo-epici, ma non ne avevo avuto chiara consapevolezza. Così per Whitman e Ginsberg, che per me erano pure esplosioni della modernità, come pure Dylan (so di star citando tre modernità molto diverse…) e ricollegarle al genere epico, per me confinato al pre-moderno, mi era impossibile.

Ho superato questo limite grazie al vs posizionamento critico e teorico (“Il bisogno di lasciarsi alle spalle i giochi linguistici … per rivolgersi alla ricerca di una poesia che torni a guardare alla Storia …riscoprendo anche la possibilità di narrazione in versi, ci sembra nello spirito dei tempi”), peraltro non isolato all’interno dello stesso ‘salotto’ Galzio. Vi sono dunque debitore per questo inquadramento cognitivo, perché la vs riflessione ha dato forma alla mia, in particolare con riguardo alla poesia dialettale.

Sappiamo che i dialetti raccontano la vita attraverso le parole dei fatti, delle cose, del mondo fisico e ciò li porta a guadagnare in rusticità e a perdere in leggerezza, ma sappiamo anche come i più rustici accenti siano capaci di sprigionare cadenze musicali ed espressioni la cui pregnanza non trova eguali nella lingua colta. Prendendo a riferimento il dialetto siciliano, che più conosco, la cosa è ben sintetizzata da Bufalino, quando nota che “Per sua virtù (del dialetto, ndr) anche il minimo evento della vita di relazione, come se avesse mangiato miracolosi spinaci, s’inietta di sangue, attinge energiche carnalità, diviene lietamente fescennino…”; e da Sciascia, quando rileva che ogni volta che il dialetto s’impenna verso la concettualizzazione, l’introspezione o il linguaggio scientifico, eccolo ingessato alla necessità di ricorrere al lessico e alla sintassi dell’italiano.

Cosa succede quando esso si volge alla poesia? Succede che alla permanenza dei suddetti caratteri si associa una scrittura dal forte accento narrativo e popolare che, in quanto tale, si presta molto all’espressione di una valenza epica. Ne aveva dato dimostrazione Teocrito, il più importante poeta siciliano dell’antichità (… scrivendo in greco), con i suoi Idilli, opera a tema bucolico ma di chiaro accento epico.

Questa valenza non è riscontrabile nella poesia colta fino all’avvento di Antonio Veneziano (1543-1593) autore di punta del petrarchismo in Sicilia, ma in versione dialettale. Egli tuttavia dimostra la completa maturità della lingua popolare nell’ispirare la poesia colta, dando un’ulteriore legittimazione lirica al volgare siciliano (e ai volgari più in generale) e favorisce il successivo sviluppo di un percorso parallelo tra poesia in lingua e poesia volgare. Ne consegue che dal ‘600 quest’ultima, senza più il condizionamento del petrarchismo, si apre a un più libero uso dei propri registri espressivi. Così tra poesia amorosa, encomiastica, burlesca, bucolica e quant’altro, fa la sua comparsa quella epica, sostenuta anche dalle numerose traduzioni delle opere classiche, da Omero a Virgilio a Tasso ecc., operate fino ai giorni nostri. Tra i tanti autori che incrociano la poesia epica va annoverato Giovanni Meli (1740-1815) con la sua Buccolica (1787), ma in questo come negli altri autori segnati dall’estetica arcadica la forma epica non sempre è riflesso di contenuti di effettiva valenza storica.

 

Nel primo ‘900 le cose cambiano significativamente. Con l’irruente rivoluzione verista, promossa sul piano linguistico e dei contenuti da Alessio Di Giovanni (1872-1946), vengono fuori i grandi interpreti delle “voci del feudo”, la cifra dell’impegno civile (e anche politico in alcuni casi), la ‘scoperta’ del mondo degli oppressi. Tutto questo porta naturalmente a conservare e anzi ad affinare l’accento epico. La poesia siciliana volta pagina, abbandona il verso sdolcinato e artificiale dell’Arcadia, i falsi idilli agresti e scopre il mondo nella sua verità, in una terra di bellezza, lavoro e sacrifici, sentimenti, dolore e religiosità. Diversamente dalla prosa verista, che opera le stesse scoperte ma resta chiusa in una visione pessimistica, questa poesia postula il cambiamento e vi contribuisce a cominciare dal riscatto della lingua nativa - e dunque della primigenia cultura di un popolo – anch’essa indebitamente espropriata nel processo di modernizzazione. Tutte queste istanze postulano una nuova consapevolezza della Storia e la richiesta di un nuovo posto nella società nazionale per il popolo del dialetto. A partire da questa nuova tematizzazione della Storia e dall’uso di una lingua riconcepita sotto il segno della semplicità e della verità delle cose («Bisogna ritornare alla natura: all’osservazione amorosa, sincera ed ingenua del vero.») non si poteva non accedere a un registro epico (nel caso del Di Giovanni a partire da Maju sicilianu, 1896 a Lu fattu di Bbissana, 1900, fino a Voci del Feudo (1938).

Da qui una serie di autori ed esperienze che, per tutto il ‘900, hanno fatto ricorso al registro epico in base a condizioni sia di fatto (dei caratteri linguistici del siciliano) che di scelta poetica, così riassumibili:

- adozione di una scrittura semplice, oggettiva e narrativa

- attenzione al rapporto tra l’uomo e la terra e all’esaurirsi di questo legame

- sensibilità alla epicità del quotidiano

- gli eroi non sono i vincitori ma i vinti, non i padroni ma gli schiavi di un sistema sociale ed economico arcaico e feroce: zolfatari, contadini, pescatori, tutti gli ultimi insomma, che vogliono affrancarsi dall’atavica arretratezza. E non si parla qui della generale opposizione operai/capitale propria della modernità otto-novecentesca ma di una opposizione posta su un piano di sottosviluppo pre-moderno, tra regnicoli e latifondisti. In sintesi, tutt’altro che una poesia dove l’autore celebra l’epica del proprio ombelico ma una che guarda diritto alla Storia in quanto soggetto collettivo.

 

Questo è quanto accade nella poesia ‘riformata’ dalla rivoluzione - teorica e applicata - operata da Alessio di Giovanni a partire dal primo ‘900.

Detto ciò la poesia dialettale è stata caratterizzata anche altrimenti – il registro lirico ha comunque mantenuto una sua presenza pregnante dando voce ad altre forme - ma che i fondamenti della rivoluzione che mezzo secolo dopo sarebbe stata chiamata poesia neo-dialettale, sono in grande misura ascrivibili al registro epico maturato nella corrente verista. Accanto al Di Giovanni l’esponente più illustre di questa rinascita, che conclude questa esperienza operando fino alla fine del secolo, è Ignazio Buttitta (1899-1997). Con esso il registro epico assume la più alta formulazione. Da Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali (1956), alla raccolta Lu trenu di lu suli (1963), e dalla raccolta La paglia bruciata. Racconti in versi (1968), fino a Colapesce (1986, la sua è una straripante incursione nella Storia e nell’impegno civile capace di mettere in ombra una nutrita schiera di altri importanti autori che hanno variamente frequentato lo stesso campo espressivo, da Santo Calì a Salvatore Camilleri, Nino Orsini, Paolo Messina, Giuseppe Giovanni Battaglia, per non citarne che alcuni.

 

Venendo ad oggi penso di poter affermare che gli accenti epici dei neodialettali siciliani del ‘900 si sono smorzati visibilmente nell’ultima generazione a vantaggio di un più articolato set di registri lirici. Questo fatto, più che a un limite proprio agli autori, oggi in maggioranza anziani, impegnati a relazionare il dialetto “al nuovo che chiede di essere nominato”, mi pare sia da imputare ad almeno due fattori: 1) alla crescente alienazione sociale in atto, come se il richiudersi delle esperienze di relazione impostoci dal Covid - vissuto come un’emergenza - fosse in realtà una condizione che vivevamo ormai da decenni senza accorgercene, drogati dalle immagini pubblicitarie di uno stile di vita che non è la vita, ma una disinformatja che ci tiene prigionieri di un Truman show; 2) all’obiettiva difficoltà a trovare le parole nuove atte a mettere in dialetto la Storia di oggi. Prendiamo ad esempio i delicati eppur densi versi di Gabriella Galzio “Oggi il mondo appare franto/ ed io, franta con lui/ tuoni in lontananza …// Solo ieri era la festa/ in un tripudio di luce/ un grido di poiana inaccessibile…// Ora è un metallico bagliore/ avvento di una mutilazione// …” (Breviario delle stagioni, p. 32). Si potrebbe dire in siciliano? Si, ma sono dubbioso sulla qualità dell’esito. Ancora più difficile se volessimo fare questa operazione con un brano dall’ultimo lavoro di Adam Vaccaro (Google- Il nome di Dio).

Scriveva Di Giovanni nel 1896 (in Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, Chiurazzi, Napoli): “Il poeta dialettale colto deve avvalersi del natio dialetto, deve spirarne l’alito particolare” senza “dimenticare la sua condizione, i suoi studi…”. In altri termini la poesia dialettale dei poeti colti doveva mantenersi fresca, genuina, spontanea, ma di una “spontaneità riflessiva”, riflessa; doveva, cioè, attingere alla poesia popolare ma non confondersi con essa. Questa operazione riuscì, con esiti più o meno alti, per tutto il ‘900, oggi risulta ben più difficile…

 

Quanto a me quello che vorrei aggiungere è come solo cammin facendo io mi sono accorto che nelle corde del mio racconto poetico (A macchia e u Jardinu, 2020) avevo una materia storica e che dovevo trattarla con la dovuta consapevolezza. Infatti era storia il passaggio dal medioevo alla post-modernità occorso tra l’esperienza di vita della Za Rosa, contadina, e quella mia che sono subentrato nel suo giardino da turista/contadino atterrato da Milano dietro alle sirene della natura e del mare; era storia il conflitto tra il selvaggio della macchia e il domestico del giardino; era storia l’uomo che moriva ammazzato per essersi trovato nel mezzo del passaggio da un terreno senza valore a uno a valore turistico; ed era storia anche quella di una giovane pianta di leccio che affrontava il futuro e le sfide della minacciosa incipiente antropizzazione.

Per contro questa consapevolezza è stata operante fin da principio nel secondo libro (L’àrbulu nostru), che si pone l’esplicito e ambizioso obiettivo di evocare un’epica dell’ulivo. Questo per dire come le vostre riflessioni sulla nuova epica mi abbiano positivamente stimolato e come ho posizionato le mie batterie di autore (scusate la metafora bellicista). Se e come io sia riuscito a tradurre questo in buona poesia è altra cosa (sta ai lettori dirlo). Io peraltro non mi sono posto l’obiettivo di fare una poesia epica, chè non era quello il mio problema, ma mi sono preoccupato di trasmettere un contenuto epico, come quando un padre vuole dire delle cose fondamentali a un figlio e per meglio farsi capire imposta il volume della voce, il ritmo, il tono.


Da L’àrbulu nostru/ Il nostro albero  (La Vita Felice, 2022)

estratto: tre poesie


Marinari
Sutta lu voscu scuru di àrbuli e màcchia
occhi nativi ammìccianu nìuri la navi
ca piriculusa s’appressa ammainannu li veli.
Silènziu di lu celu, silènziu di la terra
nna la contrura
di lu mari appinnicatu.
Di la navi ammaccatizza
occhi marinara cirnichìanu nna la costa
immòbili lu passaturi cu lu chiaccu paratu.
Poi a lampu e stampu, li vrazza li remi
li cumanni di lu ràisi,
na varca s’appressa a lu sbarcu.
Darrè lu timpuni li campisi, l’archi già tisi
l’ordini mpizzu a la lingua
li frecci chi talìanu ognuna lu so pettu.
Ma talè, di nfunnu a la varca mmeci di armi
rami d’alivu aìsanu li marinari in cerca di asilu.
Vennu mpaci o c’è mbrògghiu?

Marinai
Dal bosco ombroso di alberi e macchia
occhi indigeni scrutano truci la nave
che minacciosa s’avvicina ammainando le vele.
Silenzio del cielo, silenzio della terra
nel pomeriggio
del mare appisolato.
Dalla malconcia nave
occhi marinari cercano nella costa
immota il passaggio con la trappola pronta.
Poi è un attimo, le braccia i remi
gli ordini del comandante
una barca è prossima allo sbarco.
Dietro la duna gli arcieri, gli archi già tesi
l’ordine sulle labbra
le frecce che guardano ognuna il suo petto.
Ma ecco, dal fondo della barca non armi
ma rami di ulivo alzano i marinai in cerca di asilo.
Vengono in pace o c’è inganno?

Zàgara d’alivu
Tutti a ncinziari li ciuri ammuntuati
ma picca genti canùscinu la zàgara di l’alivu
ca tra li pàmpini l’aria pitta a biancu merlettu
e fa di casa a na ninfa timurusa
ca si discerni mmenzu a li rami
nall’epifania di un pinzeri felici.
A so tempu
l’arbulu è pigghiatu di rizzi di grazia
e li rappi di ciuri màsculu e fìmmina
scattianu a millanta stizzi di luci
comu na cometa di sciampagna
mpirugghiata mmenzu li pàmpini.
Allura comu pi maarìa, duru
e sturtignu pi com’è, l‘alivu s’abbinigna
e in difettu di api e farfalli
s’abbannuna a lu ventu fecundu
chi la so simenza cunnuci luntanu
a maritari àrbuli ca già si circàvanu.
Veru è, la terra è malata
e si mbrogghia la matassa di li nostri sònnira
ma resta la grazia di truvari nna lu fistinu nuziali
nna la felicità di ogni ciuri ca lu fruttu pripara
l’aùgghia e lu filu
di la natura sempri nnammurata.

Fiore d’ulivo
Tutti a riverire i fiori illustri
ma pochi conoscono il fiore d’ulivo
che tra le foglie l’aria di bianco merletta
ed è casa a una timida ninfa
che si ravvisa tra i rami
nell’epifania di un pensiero felice.
A suo tempo
l’albero è percorso da brividi di grazia
e i grappoli di fiori ermafroditi
esplodono in migliaia di stizze di luce
come una cometa di champagne
impigliata tra le foglie.
Allora come per incanto, duro
e storto com’è, l’ulivo s’addolcisce
e in difetto di api e farfalle
s’abbandona al vento fecondatore
che il suo seme porta lontano
a sposare alberi che già si cercavano.
È vero, la terra langue
e s’imbroglia la matassa dei nostri sogni
ma a noi è grazia ritrovare nel festino nuziale
nella felicità di ogni fiore che al frutto attende
l’ago e il filo
della natura sempre innamorata.


Alivu di fiura
Urtimamenti m’avìanu abbannunatu
ma un fu na cosa troppu tinta.
Cu giusta misura li ràrichi sicutàvanu
a campiari nna li vini di la terra feraci
mentri li frunni asprigni
liccàvanu cu li celi aerei
e lu circu di la luna luminaria
vigghiava supra la notti paisana.
Poi, malamenti sdirraricatu
c’un corpu di scavaturi
mi carriaru nta sti strati
di palazzi àvuti e cuddati sculuruti,
fuddatu nta un biruni di plastica marrò,
a vappariàrimi
cu li me cicatrici gruppusi
di vecchiu gladiaturi
a la trasuta di feri e granni alberghi.
Ora haiu pi cumpagnu stu picciuttazzu nìvuru
scampatu a li flaggelli di terri luntani
puru iddru caddusu e sulu
eleganti pi natura ma vistutu
comu un manichinu cu li scarpi stritti.
Suli o acqua, mutu, unn havi a fari nenti
ma sunnu un lampu di pici, nnall’uri vacanti
li so occhi d’Africa calmi e sintimintusi
un tempu sazzi di orizzonti rusciani
ora smarruti nna li marchiggi
di la fàvula ingannatura unni semu
tutti dui priggiuneri.

Olivo di rappresentanza
Ultimamente mi avevano abbandonato
ma non è stata una cosa terribile.
In giusta misura le radici continuavano
a pascolare tra le vene della terra ferace
mentre le aspre fronde
amoreggiavano con i volubili cieli
e il circo della luminaria luna
vegliava sulla notte contadina.
Poi, malamente sradicato
con un colpo di escavatore

mi hanno portato in queste strade
di alte case e scoloriti tramonti,
serrato in un bidone di plastica marrò,
a guappariarmi
con le mie nodose cicatrici
da vecchio gladiatore
all’entrata di fiere e grandi alberghi.
Ora ho compagno questo ragazzone nero
scampato ai flagelli di terre lontane
anche lui ruvido e solo
elegante di natura ma vestito
come un manichino con le scarpe strette.
Sole o pioggia, muto, non deve fare niente
ma sono un lampo di pece, nelle ore vuote
i suoi occhi d’Africa calmi e sentimentosi
un tempo sazi di sanguigni orizzonti
ora smarriti negli inganni
della beffarda favola in cui siamo
tutti e due prigionieri.

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