COLTI e SEMICOLTI.
di Franco Romanò
di Franco Romanò
Rispondo sia a Ennio
Abate sia a Paolo Rabissi, contento prima di tutto che il dibattito decolli. Ad
Abate, come premessa e prima di affrontare le due argomentazioni forti del suo
scritto, dico che la mia contrapposizione fra le due tradizioni letterarie
italiane (ma ce ne sono più di due) era poco più di una ritorsione retorica e
polemica a certe argomentazioni comparse qui e là su giornali e in rete, di cui
normalmente non mi occupo ma che in questo caso mi sembrava utile riprendere.
Le tradizioni, comunque, hanno la loro importanza, sebbene quello che è più
interessante per me è proprio dove esse s’incontrano e si scambiano registri e
sollecitazioni. C’è un Dante espressionista ante
litteram che ha influenzato assai Pietro Aretino e anche il ‘900, per
esempio, anche se rimangono distinte le loro appartenenze. Fra l’altro, proprio
la modernità è stata il terreno su cui colto e popolare, folklore e cultura
alta si sono mescolate. In questa contaminazione si fa strada quello che
entrambi avete chiamata un’area semicolta che è anche per me quella cui bisogna
guardare, sia per appartenenza, sia perché mi domando dove sia quella colta
colta.
La cultura di massa,
proprio per la sua inevitabile natura pervasiva e anche divulgativa, ha avuto
come effetto e contraltare di lungo periodo l’aumento dell’ignoranza relativa degli intellettuali che può assumere sia le
forme della tuttologia (in questo
senso le recenti performance di Recalcati un po’ ovunque sono un esempio
tragicamente esilarante), oppure quella della superficialità da rotocalco.
Un‘affermazione come: “In fondo Fo era solo un attore” dimenticandosi che un
attore e capocomico era pure un certo William Shakespeare, è affermazione colta,
semicolta o che cosa? In altre parole i Grandi Intellettuali di cui parlava
Gramsci nei Quaderni e che potremmo
accogliere come un altro modo di nominare la cultura più colta o alta, non
esistono forse più o sono un retaggio di tipo squisitamente umanistico e non
nel senso migliore del termine; nel caso delle scienze, poi, contano le èquipe,
sia che appartengano alla cosiddetta Big Science sia che no.
Fatta questa premessa
vengo ai due argomenti forti di Abate quando afferma:
Non vedo, cioè, né in Fo né in Dylan
«la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro
denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché
non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo recupera e usa nel suo
teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato
di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht; e Dylan
valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o
indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Parto dal merito e da
Fo. Come Paolo Rabissi, ritengo che Mistero
Buffo, la dissacrazione dei Vangeli e l’uso che fa degli Apocrifi, nel contesto culturale
italiano, siano fortemente emancipatori. Inoltre, l’invenzione del gramlot,
questa lingua popolare, maccherònica, capace di mescolare arcaismi e dialetti,
alla fine diventa una meta lingua teatrale di grande efficacia che può valere
anche per contesti che vadano oltre il mondo contadino di cui parla Abate. A
questo aggiungerei la sua capacità di fare incursioni nella storia (Joan Padan alla descoverta delle Americhe)
e, ancor più, la capacità di aggredire in presa diretta certi eventi politici e
trasformarli teatralmente: Morte
accidentale di un anarchico. Mi convince di meno nei suoi monologhi su
Agostino piuttosto che Caravaggio e altri. Non mancano nella sua opera, anche
brevi ma efficaci incursioni nel mondo operaio anche se in questo caso il
merito, sia nella scrittura dei testi, sia nella recitazione è di Franca Rame:
mi riferisco ai monologhi e ai dialoghi di Parliamo
di donne, anche se concordo sulla sua relativa lontananza dal mondo e dalla
società industriale. Non credo, tuttavia, che gli fosse estraneo Brecht, penso
piuttosto che la sua coerente adesione alla Commedia dell’Arte lo portasse a
dare minore importanza ad altri elementi.
Il caso Dylan è del
tutto diverso. Egli è certamente un intellettuale della musica, ma non credo
vada molto oltre questo; tuttavia nei suoi testi ha avuto una capacità
straordinaria di abbracciare molti mondi e attraversarli in presa diretta. Per
quanto io sia molto spesso critico nei confronti dell’americanismo deteriore e
modaiolo, bisogna anche stare attenti a non peccare di eurocentrismo: Gramsci,
che io metto al vertice, Benjamin e Adorno sono certamente importanti per il
nostro pensiero critico, facendo anche qualche distinguo, ma credo che siano
poco rilevanti (se non il primo, ma maggiormente in America latina) nel
contesto americano.
L’argomento finale di
Abate e cioè la necessità di tenere conto della critica della cultura di massa
lo condivido in pieno e quindi se ho dato nel mio scritto la sensazione di
contrapporre cultura popolare e semicolta a cultura alta, correggo subito il
tiro perché non è quello che penso. Condivido anche quello che Abate afferma
nel commento ulteriore pubblicato quando si richiama anche alla sua esperienza
di laboratorio Moltinpoesia. Partendo
quindi dalla concordanza con quanto affermato, mi pongo se mai un interrogativo:
come farlo in modo positivo in questo tempo di post modernismo dilagante?
Quanto e in che cosa ci possono aiutare ancora Gramsci e gli autori citati
anche da Abate nel farlo? Secondo me c’è una sola strada: guardare dappertutto
ed entrare nel merito. La prima espressione va presa alla lettera, ma dentro
una distinzione rispetto al post modernismo. Quest’ultimo non riconosce più
alcuna differenza fra alto e basso, popolare e colto perché omologa tutto
eliminando la categoria del giudizio critico. Guardare dappertutto non
significa dunque che tutto è uguale a tutto, ma essere consapevoli che il
valore di emancipazione di un‘opera o di un autore possono vivere in alto in
basso e nel mezzo, per cui può anche capitare che persino lo Strega riesca a
premiare un libro importante e bello come La
scuola cattolica di Edoardo Albinati. Entrare nel merito, assumere la
categoria del giudizio come responsabilità imprescindibile senza timori
reverenziali e partendo sì dalla propria appartenenza di area, ma nel rifiuto
delle gerarchie che, del resto, non si sa più da chi stabilite. Io penso che in
questi anni alcuni di noi compreso Ennio Abate lo hanno fatto e lo stanno
facendo, per cercare di uscire da quello che è per me l’aspetto più negativo
del post modernismo (che io vedo proprio come raddoppiamento ideologico della
fase neoliberista che stiamo vivendo) e cioè il suo indifferentismo e la sua
falsa democraticità.
Caro Franco, mi pare che nella sostanza concordiamo su quasi tutto e specie sulla necessità di contrastare l'indifferentismo e la falsa democraticità del clima postomodernista. Come farlo meglio non so dire, ma spero che qualche occasione di confronto più diretto tra me e voi e tra "Poliscritture" e "Di epica nuova" possa esserci e chissà...
RispondiEliminaEvviva! E a presto.
RispondiElimina