lunedì 14 novembre 2016

Ennio Abate risponde sul Nobel a Bob Dylan

Caro Paolo, 
rispondo brevemente e schematicamente alla tua sollecitazione. Ho seguito tiepidamente la discussione sui giornali analizzata invece in modo abbastanza appassionato da Romanò. Non per snobismo, ma perché, pur riconoscendo lo «strappo» dell’Accademia svedese prima con Fo e ora con Dylan o sorridendo per il «livido silenzio di poeti, narratori e critici dell’establishment» o le loro «reazioni scomposte», a me pare che  la questione non stia nel  conflitto gerarchico tra generi (letteratura/teatro nel caso di Fo; poesia/canzone nel caso di Dylan). Secondo me, Romanò  prende troppo sul serio  questo conflitto (che per me è di superficie) e allo snobismo arrogante dei sedicenti  difensori della Letteratura o della Poesia contrappone l’altra tradizione o l’altro canone: quello di Aretino, Ruzante, la commedia dell’Arte, Goldoni, per dire che anch’essi essi « fanno parte della letteratura italiana» a pieno titolo, come Dante, Petrarca, etc. Come Fo ai nostri giorni. Oppure cerca di trovare quarti di nobiltà  per Dylan risalendo all’«epoca classica arcaica» quando « la poesia era sempre accompagnata dalla musica»;  o ricordando  che – dopotutto - « Dylan ha scritto anche poesie vere e proprie, cioè testi che non erano destinati a essere musicati ma a rimanere tali».  
Io  forse mi attardo solitario  ancora su  posizioni di ascendenza marxista e fortiniana, ma, indipendentemente dai generi (e quindi dalla loro apparente neutralità e  anche dalle gerarchie che persistono e vengono difese in certi ambienti accademici conservatori ed elitari), porrei un’altra (superata?)  questione: il valore critico verso la cultura oggi dominante (che si serve sempre – ricordiamocelo -  sia delle forme elitarie che di quelle di massa o ex-popolari) o il valore emancipativo di un’opera da quale autore viene oggi raggiunto? 
Se riteniamo che tale valore sia oggi rappresentato dall’opera di Fo o di Dylan, bene, li si premi. A me non scandalizza affatto che quel valore possa essere espresso nel genere del teatro o in quello della canzone (o della poesia/canzone). Questo valore mi preme accertare. Non mi importa se viene espresso nella forma artistica a cui io sono più addestrato o che per formazione padroneggio di più. 
A questo punto, però, devo dire le mie attuali  riserve – correggibili con un’analisi più approfondita, ammesso che trovassi il tempo per farla - nei confronti sia dell’opera di Fo, che conosco un po’, e  sia dell’opera di Dylan, di cui so pochissimo. Se il valore critico ed emancipativo dell’opera di Sartre mi era evidente, non altrettanto – sottolineo: questo vale soltanto per me -  lo è nel caso di Fo e Dylan. 
A me è sempre parso che il teatro di Fo recuperasse una tradizione popolare ma di un mondo arcaico e contadino, ma che il suo teatro non riuscisse  ad “attualizzarla” e a fare i conti con i rapporti di potere che contraddistinguono le società industriali (e ora  post-industriali). Le quali hanno demolito il popolo e l’hanno sostituito con le masse. Varrebbe per Fo la critica che Asor Rosa a suo tempo fece con «Scrittori e popolo» a certa letteratura. O quella che mosse Fortini al Pasolini invaghito del “popolo” delle borgate romane.  Quanto a Dylan, nella mia ignoranza, potrei anche ammettere, con Romanò, che interpreti « lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi». A patto però che sia chiaro una cosa: si tratta dello “spirito della società di massa”.  Non vedo, cioè,  né in Fo né in Dylan «la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo  recupera e usa nel suo teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht;  e Dylan valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Un caro saluto
 Ennio

Paolo Rabissi
Ti rispondo con qualche osservazione, Romanò, al quale ho inoltrato le tue note, ti risponde a breve, probabilmente direttamente nel blog.

 1) Valgano ‘solo per me’ anche le mie note, anche se forse ho qualche conoscenza in più dei due in questione. Entrambi per me hanno rappresentato con la loro opera migliore un valore di critica verso la cultura dominante (cioè in definitiva emancipativa). Senza scendere in particolari, rammento solo per Fo la dissacrazione dei Vangeli in un’Italia clericale e fascista e per Dylan la raffigurazione del salariato precario (Maggie’s farm). Per me sono stati ‘conti’ fatti con i poteri dominanti e la loro cultura predatoria, sul versante del mondo più contadino per Fo, su quello fordista per Dylan.

2) Sì, siamo sul versante della cultura di massa, cioè dei semicolti tra i quali mi ci metto perché questa è la mia origine e nonostante le tentazioni non sono mai diventato tuttocolto.
Voglio dire che la cultura di massa ha in sé abiezioni. Ma ne ha anche quella colta. Ognuno parli dal versante che gli è proprio. Chi s’interroga tra i colti è per me degno dello stesso rispetto di chi lo fa da semicolto. Ma se ogni tanto si premiano quest’ultimi il senso anche per me è quello di una resistenza, di una opposizione alle abiezioni invadenti della cultura di massa, di cui fanno parte quei sacerdoti esaltatori della cultura colta che hanno dimenticato le proprie origini e contro i quali Romanò dice cose sin troppo tiepide: sono loro che inquinano la cultura di massa che va aiutata a esprimersi in maniera semicolta, non cortigiana, un po’ bastarda poco adatta ai salotti e alle antologie.


Va da sé che se hai tempo e voglia tue repliche ci stanno benissimo. 

1 commento:

  1. Paolo, per me il problema non è quello del «rispetto» da portare ai colti o ai semicolti e neppure quello del fatto che «ogni tanto si premiano quest’ultimi».
    Nel primo caso so che quel rispetto è del tutto di facciata e non intacca la sottostante gerarchia sociale e culturale, ma la occulta o almeno non ne fa una questione da affrontare, come si dovrebbe e si è fatto almeno fino a tempi recenti nella tradizione del pensiero socialista, anarchico e comunista.
    Nel secondo il premio, anche se non venisse elargito «ogni tanto» ma più spesso, mi sa di elemosina o di simpatica pacca sulla spalla ai semicolti.
    È sempre esistita nei rapporti tra cultura alta e bassa in tutti i tempi sia circolarità che tensione. Se vogliamo parlare di influenza (più che di “inquinamento”), devi ammettere che, a seconda delle contingenze storiche, essa è stata reciproca: dall’alto in basso o dalle pereiferie al centro; e viceversa. E con effetti che possono essere considerati positivi o negativi a seconda del punto di vista in cui ci collochiamo.
    Da quanto scrivi ho l’impressione che tu abbia una visione unilaterale di questi rapporti, perché enfatizzi l’invadenza dei «sacerdoti esaltatori della cultura colta» ( e in particolare dei *parvenu* o *liberti* che avrebbero «dimenticato le proprie origini»).
    Trovo poi l’idea di una cultura di massa che, come quella “popolare” che l’ha preceduta in tempi non industrializzati, resisterebbe o si opporrebbe all’”imbastardimento” troppo pasoliniana. E paternalistica o populistica l’intento che la cultura di massa vada aiutata «a esprimersi in maniera semicolta, non cortigiana».
    Proprio parlando dal versante che mi è proprio e mettendomi io pure tra i «semicolti», direi che l’esperienza del «Laboratorio moltinpoesia» (2006-2012) mi ha, sì, confermato lo snobismo dall’alto dei « sacerdoti esaltatori della cultura colta» ma – ahimé! – pure lo snobismo dal basso dei tanti «semicolti» che preferiscono di gran lunga la cortigianeria acritica e sono attirati soprattutto dai salotti e dalle antologie.
    Citando nel mio precedente intervento Fortini, Brecht, Adorno e Benjamin intendevo alludere a una via diversa imboccata in vari modi e con diverse sfumature da tali autori. Essa, secondo me, evitava (non sempre e non in tutti) di enfatizzare esclusivamente la contrapposizione tra cultura alta e bassa, come mi pare facciate tu e Romanò; e mirava tout court ad una «organizzazione della cultura» diversa per una società diversa. Oggi tale prospettiva è stata abbandonata e viene demonizzata perché sconfitta e ridotta in rovine. Che, a mio parere, dovremmo però ripensare per ripartire invece di limitarci alla semplice difesa e valorizzazione dell’attuale cultura di massa o dei «semicolti». Si chiamassero pure Dario Fo e Bob Dylan.

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