giovedì 7 aprile 2016

La Materia di Britannia
poema epico di Paolo Borzi


Pubblichiamo oggi, con una breve nota introduttiva dell’autore medesimo, due parti del suo poema in ottava rima, La materia di Britannia, e un brano con accentuati tratti danteschi facente parte dello stesso poema, come un esempio possibile di ciò che intendiamo per epica nuova. Con quest’opera, Paolo Borzi risale infatti a una delle fonti della narrativa e della poesia occidentali in epoca cristiana: il ciclo bretone. La materia squisitamente epica viene ripercorsa e riproposta come grande metafora del nostro tempo. Il testo, tuttavia, è anche un viaggio nella tradizione colta e popolare della lingua italiana e nei suoi stili, nella convinzione che un poeta o uno scrittore hanno a disposizione l’intero patrimonio linguistico di una civiltà, sia da un punto di visto sincronico sia diacronico (f.r.)


Propongo ai cari amici di Epicanuova 16 (più un extra iper dantesco) delle 453 ottave del mio poema epico sul Ciclo Bretone. In ogni mio libro ho sempre proposto un’Epica diversa, in prosa e-o versi. Ma inserire un poema cavalleresco in ottave nell’Epica Nuova è una sfida quanto mai stimolante e scabrosa; anche per questo ho proposto di connotare al plurale (Epiche Nuove) il filone neo epico che staremmo tutti insieme  promuovendo: per poter inserire-tra le altre-questa scandalosa modalità, senza che la decisa aderenza alla Tradizione la possa mettere in una posizione esemplare, o al contrario insostenibile. Una valenza esemplificativa, può nondimeno essere fornita per elaborati anche sostanzialmente diversi, che vogliano comunque adottare schemi simili (stanze, assonanze etc.), ma con maggiore libertà: un “format-seme” per sviluppi anche, magari solo in apparenza, radicalmente difformi.

La scrittura si propone di rendere tutte le suggestioni storiche, allegoriche, psicologiche e psicagogiche di questo materiale tradizionale, che proprio nella “connivenza” di queste motivazioni sfonda a mio avviso il muro del tempo. La versificazione, chiusa anch’essa in misure e stanze tradizionali, rinuncia però a ogni patina di anticaglia, ivi comprese le tronche funzionali alla metrica; e quasi inverte la proporzione tra endecasillabi compiuti o con enjambement. Il criterio di massima è infatti quello di mettere la rima ogni 11 sillabe, quasi prescindendo dalle chiusure di senso. La presenza di una chiusura, però, vorrebbe rendersi assai preziosa quando si adottasse  la “perentorietà” di certa epica classica, che va certo filtrata da un sentire diverso, ma recuperata quando necessario.

 L’Epica, vecchia o nuova che sia, non può rinunciare a una visione ideologica: in queste sole quattro ottave le cose impellenti da dimostrare, o meglio, mostrare, sono 3: Il Ciclo Bretone si pone, nella sua essenza, come “quinto vangelo”; il Ciclo Bretone si pone come “Odissea ulteriore”; il Ciclo Bretone parla di noi moderni a noi moderni. L’autore non intende discutere questo, è comunque la sua scelta, al punto che “si sbriga” a dirlo con poco: è un’altra sfida, quella d’una poesia narrativa che dice tanto con pochissimo, perché la qualità del distillato è determinata dalla natura e dalla mole del distillando.

Un accenno sulle assonanze: esse sono rarissime, incidentali e facilmente rimuovibili. Sono state lasciate, entro certi limiti, per “onorare” la natura abbastanza rapida e fluviale di questa composizione, articolata però su una griglia strutturata da decenni di studio e di ascolto del canto a braccio.

Dalla Tavola di Merlino

53
Si canta qui in ottave del profeta
che mise in viaggio Ulisse, non per Sale,
ma per gli abissi interni del pianeta.
Del remo fece Spada inflitta al Male,
estratta poi da un sasso fatto creta
da un Perdente invincibile: un regale
discepolo, sottratto a cure urbane
per farne il Re delle leggende umane.
54
Rimase al sasso quella feritoia
che compensò la Breccia nel Costato
e l’ astuta perfidia armata a Troia,
perché l’ ingegno umano, nel Crëato,
faccia progressi senza che si muoia.
Vinse Vortigern, quel tirannizzato
crudele siniscalco, coi pagani
facente patti non corretti e umani.
55
L’ Anglo-Sassonia germinava certo
com’ erba tra gli sbreghi di quel Vallo
al tempo già un magnifico reperto.
Lui già sapeva che non c’ era stallo,
il tempo per un secolo coperto
da vivacchiarsi in gesta da rimpallo.
I semi lui mesceva coi rottami
del mondo antico e nuovo, e i tronchi e i rami
56
del Fato e dei Problemi, tra reinnesti
ricomponeva in totem della Vita;
senza scartar la linfa dei furenti
sciamani di Sassonia, che in partita
vincevano con alberi perdenti.
Così l’ Europa al mondo è partorita:
d’ ogni virtù civile germe e aborto;
e nave ancora in viaggio senza porto.


Nella Tavola d’Amore abbiamo in primo luogo l’incontro tra Lancillotto e il Cavaliere Nero. Il Tripode aureo di questa Epica: Eros-Politica-Mistero (con confluenza in quest’ultimo del turismo rituale e del contatto con lo Straniero e l’extra ordinario, secondo il modello omerico) è qui a pieno regime. L’ Eros deve fomentare e non ostacolare l’opera di Giustizia; mentre all’ Avventura è affidato il compito di disconnettere o connettere tutto: emblematica-nella terza parte-la citazione dell’episodio di Circe, dove trasformarsi in maiali e perlustrare da vivi l’Ade per incontrare Tiresia,  si connettono come esiti potenziali dello stesso mitologema.

Ma preme far notare l’impatto degli atti e degli ambienti nella versificazione: l’ottava diviene sempre meno un abababcc d’endecasillabi per lo più compiuti, e si popola di altre misure- volendo, alfanumerizzabili-per rimandi interni, parabole, connessioni in diagonale, verticale e orizzontale. Il tutto a beneficio-si vorrebbe-d’una certa teatralità cinetica e cinefila, e d’un allegorismo fantastico al limite della pirotecnica. Il virtuosismo è ben voluto (osservazione divenuta quanto mai  rivoluzionaria), ma solo se interno a un lavoro non sostanzialmente virtuosistico. Volendo istituire una “corrente”  per questo ponte tra Tradizione (epica) e Avanguardia, potremmo parlare di “aristotelismo barocco”: un passo tra Tasso e Cervantes; una rivisitazione concettuale e psicoanalitica del folklore (prosciugato con l’andar dei secoli dalle accademie colte); uno sguardo fisso, con prospezione utopista, al presente.

153
E’ Tavola d’ Amore qui imbandita.
Amor che tutta avvolge la Materia.
Bruciante amor sodale amor: ferita
che svuota in spossatezza deleteria;
ma è landa, a volte, piccola e fiorita
come la nostra tra La Spezia e Imperia:
stigmate in pelle d’ arte trovatoria,
parentesi tra tomba e tra baldoria.
154
Laddove Don Chisciotte nei mulini
vide giganti, il Cavaliere Bianco
i mostri vede, quelli a noi vicini,
quelli che spesso vivono nel branco
qui proprio a fianco; e i démoni in mattini
vede, laddove un cavaliere stanco
s’ è perso in una forza incantatrice,
tra gli acquitrini e il volto d’ una Attrice.
155
Il Potere feroce d’un tiranno
l’ annienta combattendo con fierezza;
ma poi, caduto l’uomo, resta il danno,
la sordida radice, una schifezza,
un pozzo senza fine di malanno...
che chiede, per mondarlo, quell’ altezza
che dà una conoscenza più sottile,
nutrita nel profondo, e poi civile.
156
Movendo per la Guardia Dolorosa,
fetida corte in cui l’ interno è esterno
(e brutta dunque quanto ben graziosa
quella d’ Artù, votata al buon governo),
a lungo si fermò su un’ armoniosa
sponda, indugiando, prima dell’ inferno
che l’ attendeva, ed era pronto, in quanto
il maniero era noto in ogni canto.
157
Fantasticava di Ginevra, quando
nell’altra riva vide un duplicato
di sé, ma in armi scure, che in rimando
alle sue mosse,  lo imitava. Un lato
come quell’ altro lato già sembrando
(pel verde in stile inglese e vallonato)
col Bianco e il Nero identici in moine,
pareva che uno specchio senza fine
158
fosse a metà del guado, in tutto il fiume.
Fece una specie di saluto al Sole,
com’usa il fricchettone al primo lume;
e il nero,  uguale, e in mezzo a eguali aiuole.
Nacque il sospetto, un pallido barlume,
d’ essere preso pei fondelli, e vuole
il Bianco avvicinarsi, e il Nero pure,
anche se spinto da ben altre cure.
159
(San)Michele osserva i due figuri, al flutto
semisommersi, nel cresposo argento,
tra verdi vallonati eguali in tutto.
A un videogame, pensò per un momento:
come se fosse un futurista putto
e un monitor il mondo, acceso o spento
se scorgi o meno fregi artificiali...
Precognizione secca da immortali
160
che l’ ali gl’ increspò, mentre le mani
pigiavano il comando immaginario,
come d’ un flipper, con effetti vani;
sotto è l’umano, un campionario vario
di nani: un quarto déi tre quarti inani
bestie disposte a caso da un Sicario
che è il Caso stesso, nell’ umano messo
perché faccia progresso da sé stesso.
161
Il Bianco e il Nero sono faccia a faccia;
non sa ser Lancillotto se è una Prova,
un gioco speculare che dispiaccia
o piaccia, hai da capire cosa cova
sotto un mistero; o se era preda in caccia
d’ un beffatore in nero, che ci prova
a irriderti per poi fregarti dopo,
facendo come il gatto con il topo (…)

Nel prosieguo Lancillotto sconfigge il Cavaliere Nero, ma rimane turbato: sarà stato individuo a sé, o un fantasma significante la sua stessa condizione di innamorato ciondolante sulla sponda d’un fiume? La ninfa Saraide interviene sostenendo che quello spettrale “anti Lancilloto” era in realtà entrambe le cose: innamorato d’una Dama dei Ghiacci, voleva guadagnarsi l’eternità accanto a Lei, ostacolando i Cavalieri buoni che volevano destituire un tiranno, alleato di detta gelida Signora. In buona sostanza, Urbano, il Cavaliere Nero, aveva per amore optato per la parte sbagliata, pur essendo nell’intimo identico al Cavaliere Bianco che voleva appiedare. L’insegnamento sul non dover mai fare ciò, può sembrare piuttosto grossolano e sempliciotto… ma chi sa se a furia di appiccare il fuoco agli abbecedari di Pinocchio, in tutte le loro edizioni, non sia tornata  anche la necessità di fondamentali tanto “naif”.

In un fraterno ma anche quasi romantico abbraccio al plenilunio, Lancillotto e la sua sodale semidivina assistono a un volo di arpie affiliate alla Dama dei Ghiacci, che portano in un fagotto la nera ferraglia con dentro Urbano, per deporlo in un ignoto destino. Lancillotto capisce che senza di lui sarebbe diventato come lui, e torna all’Azione con questa nuova affezione fraterna per un ex nemico, aggiuntasi nell’animo.


E infatti a notte, stretti come amanti,
Saraide e il Bianco (in fondo fratellastri)
osservano la Luna, lì davanti,
bianca e gigante in mezzo agli aurei astri.
Va a mezzanotte, ronda degli andanti:
arpie reggenti cavalieri impiastri,
cicogne inverse in mondo parallelo;
e in volo adesso sul lunare velo.
177
“Saraide, dimmi,”fece pensieroso
il Bianco, che era in bianco un po’ più sporco:
“come aggirare il mio pericoloso
destino...se in Urbano mi distorco,
anch’ io sarò in partenza nel boscoso
slargo; in vitello come Ulisse in porco
mutato: e sempre è in bestia da macello.
Sono nei ranghi un Cavalier pivello,
178
“e già qui l’ antipasto è un pasto immane!”
E in replica la ninfa: “Tu domani
t’ imbatterai in un Nero detto il Cane;
e Urbano qui t’ ha dato a piene mani
il senso contro al suo: chi toglie il pane
ruba alla gente pure il suo domani.
Dunque,  con scopo di Giustizia, cresci
molto di più che al fiume assieme ai pesci.

Conclusione: questo genere di testi ripropongono a tratti una certa semplicità familiare, diremmo “pop”, e così dovrebbe e vorrebbe essere; una apparente immediatezza sempre interna, però, a una concettualizzazione acuta del discorso poetico. In un laboratorio come il nostro è quasi obbligatoria l’auto presentazione, evitando naturalmente di darsi da soli giudizi di rango e levatura estetica. Oltre a ciò, la natura di questi lavori fa sì che anche le esposizioni fornite dall’autore, poche o moltissime, possano essere facilmente rilevate, o altrettanto facilmente escluse, nel testo o dal testo, da chiunque abbia interesse per queste fattispecie e voglia prestarvi attenzione. Intendo poi con questa sommaria disanima onorare la figura intellettuale del mio prefatore, un illustre docente tanto versato per la poetica di Aristotele, quanto per il discorso critico d’Avanguardia: e il ponte che lega queste due sponde sembra proprio la “trasparenza e l’ esponibilità pubblica” del laboratorio.

Se l’Epica, qualsiasi epica, comporta la demolizione antibiotica d’ogni ermetismo residuo e di tutto il suo parentado, il genere qui rappresentato è una sorta di chemioterapia sradicante. Consigliati comunque dosaggi robusti di “anti ermetina”, per qualsiasi elaborato che voglia dirsi, a qualsiasi titolo, “epico”. Nell’Epica  non c’è alcuna  profondità che non sia permeabile; nell’epica e non solo, mi sento d’aggiungere; in poesia e altrove. Nessuna crociata contro scuole diverse, ma solo un discorso sulla coerenza di questa opzione, aristotelica ma anche hegeliana (nel senso della Fenomenologia, ovvero il “Poema” del grande filosofo di Stoccarda).

Con ciò, un certo tratto sanamente esoterico, può essere al contrario  riqualificato entro una precisa dialettica sociale, storica, e antropologica; in quella autentica “lotta di classe” che ha rappresentato nel grande passo tra l’alto e il basso Medioevo, mediante l’eresia dualista cataro-albigese,  molto influente in Italia nella nascente letteratura nazionale, dalla Toscana alla Sicilia. Il dualismo di questi, tendenzialmente iconoclasta e anti cosmico, ha prodotto una reazione termo culturale nel contatto con il folklore vitalistico (se pure anch’esso endemicamente dualista) e le gilde d’Artigianato dalle classi subalterne, da una parte, e proprio con la poesia, dall’altra. Tale “positività negativa” (una specie di ossimoro anche teologico), così tragicamente feconda come aspetto infra religioso della Cristianità, ha creato un gioco irripetibile, stavolta interreligioso, con la portentosa intelligenza islamica ed ebraica,  influente fin dentro le prime università, che fiorirono in quello che viene giustamente definito il “Rinascimento del 12° secolo”: sgozzato da una sua precisa “controriforma crociata”,  e che rimane un “rimosso utopistico” il cui “ritorno” potrebbe molto riguardare svariati temi a noi cari, non ultimo quello trattato in questo prezioso blog.

Alto e Basso (il Medioevo ma anche il linguaggio), folklore e università, rimescolamenti dottrinari, contaminazione interculturale, teorie d’emancipazione anche dei e fra i sessi, corti “illuminate” (molto quella al femminile d’Eleonora d’Aquitania), hanno costituito quel precocissimo seme, che una violenta ondata di pece di ignoranza e di sangue ha sepolto per quasi tutto il 13°, appunto con le famose “crociate interne”. Dante e la Commedia altro non furono che il geiser potente di quella materia compressa, che ha bucato l’infernale placca e avviato quello che sappiamo, comprese molte delle ragioni del nostro discorrere.

Concluderei proprio suggerendo ai notevolissimi intellettuali, cui dobbiamo questa stupenda  iniziativa, di considerare loro stessi il rapporto che una Epica Nuova può avere col Sommo Poeta, col suo periodo storico e con quello di cui il Vate fu maturissimo epigono, ovvero a mio avviso proprio il 12° secolo. E quanto un’Epica Nuova, o per lo meno una della epiche nuove, possa avere un rapporto con la “sapienza dei subalterni”, provando a riaccendere la miccia sul folklore  innescata da Gramsci, e ripresa a mio avviso dal tardo Pasolini, “dualista ed ellenista, parabolico e protestante, canoro e atroce”, di Petrolio. Ma soprattutto, imploro dalla Redazione i bellissimi testi di cui Essa, in svariati membri, è capace. Con affetto gratitudine e ammirazione,

Paolo Borzi

EXTRA

(…)
Partendo a caso, adulterai del conio;
ma non come a un falsario si conviene:
più indemoniato all’ arte del demonio,
il falso già all’ origine, con piene
virtù legali, a Tizio ed a Sempronio,
versai sapendo che contava niente.
Ed estorcevo il sangue a quella gente;
partita e persa in guerre per promessa
o pretesti inventati, e in caso uccisa
con un invito a cena oppure a Messa.
Son traditore, in formula precisa,
di ospiti, d’ amici e per commessa
benefattori pure. Ho poi derisa
la brava gente e i poveri di Dio...
e calunniata a un modo tutto mio:
spargere il dogma della nefandezza
celata in ogni uomo:  quale sia
non fa un delitto solo per pochezza.
N’ ho fatti lapidare, per la via,
inventando di loro ogni schifezza.
Ai barbari insegnai l’ ipocrisia:
clericalismo di facciata; e ho appreso
l’ uccisione rituale d’ indifeso.
Tradii due patrie: quella ancora in germe,
per averne il controllo generale,
promuovendo puttane e menti inferme;
e quanto ci restava di imperiale,
rendendo Roma ai barbari più inerme.
Mescendo sempre il peggio col banale,
mi corruppi talmente i sentimenti
da copular tra morti ed escrementi.
Necrofilo pedofilo e omicida,
capisco qui che il Male, dominando,
è alieno: l’ aria infatti è malicida,
e l’ uomo che è malvagio, respirando,
ne contraddice la continua sfida;
Lo capì Giuda quando, già impiccando,
gettò i baiocchi, e chiusesi la strozza
per non riaverli nella landa sozza.
(…)

Da “la confessione di Virtigern” all’Inferno




2 commenti:

  1. Borzi è un poeta picaresco, pirotecnico, dottissimo, con una grande mente in cui succede di tutto... e con un grande cuore, senza il quale la mente di un poeta non può nulla. Noi lettori gli siamo grati per questo teatro performatore di una parola poetica assurda, funambolica, densa in ogni virgola di riferimenti spesso imprendibili. L'avventura rodomontica continua...

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  2. Paolo Borzi, tramite redazione, risponde così al commento di Alessandra Paganardi:

    Sì, adorata Ale: connessioni (testo etero telico, riferito continuamente ad altro) e assurdo (testo etero prospettico, o straniante): per me, le due note incessanti che dovrebbe avere un testo letterario, in versi o prosa che sia, almeno per la mia idea, fortunatamente non l’unica, e soprattutto per la fattispecie che interessa questo blog. Oltre i complimenti davvero generosissimi, a me sta benissimo-e ci mancherebbe-anche il picaresco, il funambolico etc…, posto sia chiaro che il “format”, al di là dei limiti o le specificità dell’autore, vorrebbe essere l’esatto contrario della parodia bassa, della caricatura sarcastica, della dissacrazione borghese su un materiale tenuto come “aristocratico” e medievale, e che per me resta nell’anima sottoproletario e immortale. Del Comico non ho parlato per non fare autocritica letteraria, fermandomi agli espedienti pratici, ai filosofi che amo, alla cultura generale. Diciamo che è un elemento portante dello straniamento, pur non collimando completamente i concetti: come sai e come hai visto applicato in altri miei lavori, su cui hai anche proluso e scritto. Una futura opera che, a una lettrice e Poetessa del calibro di Alessandra Paganardi, risultasse un po’ più imperdibile e meno imprendibile nelle connessioni, un po’ meno assurda e un po’ più straniante, sarebbe quella di un bel passo in avanti. Che Iddio e la voglia mi consentano almeno di provarci. Un grande e grato bacione. Paolo

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