FAR SALTARE IL NOBEL CON LA DINAMITE
DI NOBEL
A PROPOSITO DEI RICONOSCIMENTI A DARIO FO E BOB
DYLAN
Davvero la Letteratura è un cadavere squisito, morta e
sepolta sotto torrenziali cronache giornalistiche? Aveva ragione Karl Kraus (Gli ultimi giorni dell’umanità, 1922) a
presagire che nei tempi a venire la figura profonda dell’intellettuale si
sarebbe fatta scavalcare dalla figurina scialba e cocchiera degli imbrattacarte
da rotocalco?
Certo è che ai giorni nostri i giornalisti notomizzano la
realtà, mentre coloro che si reputano letterati
non fanno che discettare del linguaggio, evocando sterili mondi di
parole, chiuse in una logosfera autoreferenziale. Dal canto suo il pubblico ha
smesso di leggere, si accontenta di sciacquare la coscienza con libercoli
insulsi e sommamente inutili.
Risaliamo alle cause di questa catastrofe, senza scomodare
antropologismi e sofismi alla moda: le prime avanguardie (1910-1930) come pure
le seconde (1960-1970) hanno triturato e cancellato il patrimonio di un’intera
civiltà scrittoria. Chi non ricorda i millanta peana elevati per la morte della
poesia e del romanzo?
Che cosa resta? Leggo la Recherche
e mi sento un paleografo, un
raschiatore di tavolette sumeriche, tanto la complessità dell’incedere
proustiano sembra lontana anni-luce dal rapido e parattatico periodare degli
odierni tramatori di storie. Nonostante questo disastro, il sottoscritto,
insieme a chiunque voglia salire sul ring a testa bassa, non rinuncia a picchiare forte su figure e
concetti nuovi, per non darla vinta a chi ha ridotto l’accadimento letterario a un Golem sfaldato in polvere semantica
irricomponibile.
Sto alla scrivania come alla consolle di un concerto rock
(l’uscita magnifica appartiene a Deleuze), cerco l’esplosione di energia, la
vita vera e non mi rassegno alla calma piatta dei social media.
Veniamo al punto, alla disputatio
quodlibetalis, ingarbugliatasi in una vexata
quaestio: due Nobel per la Letteratura conferiti a un teatrante e a un
canzonettista. Fu vero scandalo?
Guardiamo di sbieco: Dario Fo (Mistero buffo in primis) con
le sue pièces fonda un altro mondo,
un universo festoso, radicalmente in contrasto con la seriosità del potere. Il
riso non ufficiale di Rabelais e di Folengo irrompe nel lacrimatoio
italo-europeo e spande una salutare e sedula anarchia. Fo porta l’esuberanza
del nomade carro di Tespi, le parole impossibili da imbrigliare, una diversa
modalità di offrire e condividere lo spazio scenico. Lo si può definire un autore/istrione
radicalmente trasgressivo.
Bob Dylan si muove nella stessa direzione: vìola la linea di
demarcazione tracciata fra folk song
e poesia. Raccoglie l’eredità duplex
dei metafisici inglesi e dei maudits
francesi, riversandoli negli angusti confini della canzone di protesta. Dylan
scrive molto e armonizza senza originalità i versi con cui sono cresciute
intere generazioni, segnandole con la sua disturbante voce adenoidea e con una
scrittura visionaria e fiammante.
In sostanza due non-letterati, due artisti controcorrente,
antagonistici, ciascuno a suo modo, ma allora a che pro accettare la mela
avvelenata del Nobel per la Letteratura, perniciosa manovra di annacquamento e
di accademizzazione della loro protesta recitata e cantata?
Il problema non è se è giusto o sbagliato assegnare il Nobel
a Fo e a Dylan, quanto stupirsi del fatto che l’abbiano accettato.
Il sistema, si sa, ingloba e fagocita. Furbi i parruconi di Stoccolma a indicare due outsider. Tre piccioni con una fava: 1) ufficializzare la morte
della Letteratura, premiando due non letterati; 2) cancellare con un colpo di
spugna quel minimo di cultura alternativa che ancora circola nelle arterie
vetrificate di questa società-acquario; 3) stabilire una sordida e acritica equivalenza di cultura alta e
bassa, cultura di massa e cultura della massa in omaggio al dettato postmoderno
del “tutto fa brodo”.
Il punto non è il Nobel a Fo e a Dylan. Diventa dirimente il
fatto che su quel premio dovevano sputarci sopra, mantenendo un minimo di
coerenza con il proprio passato.
No ai premi e ai trenta denari del servilismo. No alla
società dello spettacolo. No ai pinguini impomatati che vanno a cingersi di
alloro con i dis-valori che dovrebbero combattere. Si al lavoro duro,
sottotraccia, degli anacoreti, sobri e misurati, che credono ancora nella
possibilità di rizollare il deserto.
Vi segnalo che la discussione prosegue anche nel nostro sito con questo intervento di Marco Gaetani:
RispondiEliminahttp://www.poliscritture.it/2017/01/27/tutto-il-resto-non-e-letteratura/
Siete invitati a intervenire. Un saluto E. A.
Sullo stesso tema ancora un intervento stavolta di Giulio Toffoli:
RispondiEliminahttp://www.poliscritture.it/2017/02/18/ancora-su-dylan/
Un saluto
E. A.