12/02/16 5.04 pm
Millenoventosettantotto, di Alessandra Paganardi, è un poemetto che fu
pubblicato nella più ampia raccolta dal titolo Tempo reale, nel 2007, per le edizioni Joker, con introduzione di
Mauro Ferrari. Riletto dall'autrice nel ciclo Poesia e storia organizzato due anni fa alla Liberia Franco Angeli
alla Bicocca di Milano, lo riproponiamo oggi nel blog insieme ad un breve
intervento critico e un testo inedito.
La
poesia di Paganardi ha un fondo elegiaco che sembrerebbe lontano da un ingaggio
con la storia, ma in questo poemetto e anche in altri testi più brevi, nelle
diverse raccolte, accade che lo sguardo e l'attenzione puntino diritti a quegli
eventi che, o perché nascosti nelle pieghe del quotidiano, oppure – come in
questo caso – perché tanto enormi da romperne la continuità, s'impongono
perentoriamente all'attenzione del dettato poetico.
In
Millenovecentosettantotto, la forza
del testo sta in un doppio movimento. Da un lato chi scrive è una donna che ha
metabolizzato i vissuti, affinato il proprio linguaggio poetico, fatto come
tutti i suoi conti più o meno aperti con la storia, dall'altro però, il punto
di vista del testo è quello della giovane ragazza appena adolescente che in
un'aula di liceo e o forse ancora di ginnasio, si trova addosso un evento
politico e sociale di quella portata. Proprio nella capacità di identificazione
con quella immagine di giovane donna che non è solo personale ma generazionale,
e poi di distacco e riflessione, si muovono le stanze del poemetto.
La
brevità dei testi è un altro elemento che rende nitide e concluse le immagini.
Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro diventano così il prisma attraverso il
quale andare ancora più indietro nel tempo, per esempio agli anni del boom
economico (la sesta stanza) per poi tornare al presente di adolescente, infine
alla riflessione. L'immagine finale del re persiano che guarda i suoi uomini è
il suggello di un percorso originale dentro la storia che abbiamo ritenuto un
esempio di quello che in questo blog abbiamo indicato come epica nuova.
Millenovecentosettantotto
Era questo: un accordo
d’allegria improvvisa
le palme in passerella sulla
sabbia
e quella torre azzurra, così
malsicura. Era questo
acchiappare
la bellezza più in basso, a
mosca cieca,
dal solco impertinente fra le
labbra
e le narici. Non si domandava
sconto né resto
la sorgente scorreva senza
brocca
il saldo dell’estate era
nell’aria.
La storia arriva sempre dopo
all’inizio è un sommario
anticipato –
un salto, un sole, un caso.
Poi ci fu il vento che
gonfiava il seno
alle ragazze, volo in
mongolfiera -
una corsa sul tram diritti e
soli.
Ridere dalle labbra, non
dagli occhi
nel prendere ciascuno la sua
parte -
una parte non sua, diritti e
soli.
Il corridoio sì, il corridoio
era il sasso sospeso,
l’avamposto
di una guerra finita.
Già marzo, non ancora
primavera
quattro ammazzati, presto
morto il quinto,
stringersi giù in palestra
appesi ai quadri
prendersi tempo per una
domanda
tempo per la paura.
Comprendemmo
allora il fuori posto e il
fuori fase -
sapevamo di aver trovato un
mondo
sognato già da troppi, non
più nostro.
Il mare nel paese dei
balocchi
le sdraio in fila come in un
concerto
la sabbia che sembrava
comperata.
Il giovane dal nome un po’
romano
portava le bevande ai
tavolini.
Tutto dolce e salato, anche
il mare
sfuggito da non molto a
quella foce
con le viscere là, proprio là
dove
mettevamo in valigia le
nostre
vocali aperte, le consonanti
in fuga
i nostri mah, l’orgoglio
della fretta
la città che sorride troppo o
niente.
La storia, poi, si ritirava
tutta
dentro quelle colline.
L’estate
era aspettare in compagnia
dei libri
scrivere lettere senza
rumore.
Il confine sembrava più
distante
le lancette correvano
all’indietro
allo specchio tornava esatta
l’ora.
Ci dicevano: sarà tutto
migliore
tutto più grande e più
lucente, una città
sospesa fra le luci di Natale
sarà un altro miracolo,
televisori
accesi col pensiero in ogni
stanza
donne sempre più belle con
l’età
corpi di cera lucidati a
lacca
bambini bravi che ridono
sempre -
ricordavamo di non aver visto
il miracolo di vent’anni
prima
un faro acceso e spento in
bianco e nero
una guerra guarita. Ponti
tibetani
tesi fra due miracoli,
sorpresi
dalla paura di essere
normali.
Sentivamo che tutto andava in fretta
più in fretta delle sere di
novembre –
rapacità sognata dall’inizio
del secolo, fame verde
dell’istante,
la mietitura prima della
semina
la terra da rapire dentro un
punto.
Qualcuno si sentiva più
sicuro
come un auriga su cavalli
alati
altri fuggivano con il
pensiero
alle giostre impazzite, al
capogiro
dei colori danzanti nella
testa.
In altri rinasceva nostalgia
quasi segreta di un prima e
di un dopo
una sorpresa, un fiore da
aspettare –
un desiderio da non rivelare.
Era un tempo residuo, che non
sai
se sia il tramonto o l’alba,
che scommetti
rimpianto nell’attesa. Lo
vedevi da certi
volti di vecchi mai più
visti, facce
di vera lunga vita - come il
legno
o come il mare. Il secolo
cresceva
la clessidra della millesima
notte
appesantiva i suoi fianchi di
sposa.
La grandine, però, su quella
piazza
dopo la festa grande dei
coscritti
faceva ancora paura, un
salotto
strano, come fuori dalla
chiesa
capisci che si aspetta un
funerale
o che è arrivata la messa di
maggio.
Si ritornava al volo
appesantito
della poiana sul tetto, al
risveglio
cucito al giorno – quello che
non puoi
sognare più, destarti non
ancora
ma non ti puoi fermare, non
ti puoi
dimenticare che la mappa del
mondo
è diventata un foglio da
strappare
o da rifare in copia. Allora
cerchi
la calma di un cortile verso
l’alba
dove c’è sempre una finestra
accesa
-
la seconda è la
tua, devi imparare
per raggiungerla il volo
orizzontale.
Si può imparare il gesto
della foglia
che si piega, il remo pronto
all’acqua
la radice precisa. Si può
fare
finta di aver capito quanto
basta
anche se in fondo non si sa
mai bene
ciò che basta capire. Si può
dire
di più o di meno, portare
pazienza
vedere ciò che manca. Puoi
imparare
il mondo intero e rimanere
fermo.
E poi non è mai detto, oppure forse
si dice sempre ed è tutto
diverso –
oggi e ieri due treni svelti
in corsa
in direzioni contrarie,
domani
il binario che resta e che
sospinge.
Si dirà quando l’ultimo
orologio
sarà fermo, un souvenir di
viaggio
dimenticato su una brutta
mensola –
lo sapeva il Gran Re dalla
collina
pensando ai suoi bellissimi
soldati
cent’anni dopo. Sapeva e
piangeva
quel re, non di dolore ma di
storia
piangeva la partenza dalla
fine
e l’arrivo in eterno
rimandato –
correre sempre avanti come in
sogno
con la moviola dietro che ci
azzera.
Alessandra Paganardi
22 NOVEMBRE 1963
Non esser nata in un
giorno qualunque
io lo compresi già
alle elementari:
il giornale con le
lettere grandi
spegneva tutti gli
anni le candele
sulla foto di un
grande funerale
al di là dell'oceano.
I primi tempi
non capivo, chiedevo
come mai
così mesta per me
fosse la festa.
Ma tutti i compleanni
sono esequie
è lì che muore la
nostra non vita -
da allora non potremo
più restare
nel gran sogno di non
essere ancora.
Caro mi fu quel
nascere d'autunno
e a capire ogni anno
sempre meglio
che la vita ha la sua gemella
scura
servì spegnere la
candelina zero
sulla tua gola
esplosa, JFK.
Alessandra Paganardi, inedito
Per il momento, grazie!AP
RispondiEliminaBellissimo e intenso il poemetto, Ale. Tempo reale mi manca! S.
RispondiEliminaNella semplicità del dettato le illusioni di un tempo , i ricordi riemersi , il sorriso del presente. La poesia vuole ripensamenti e approfondimenti nello scorrere dei versi , che ricercano il ritmo e la musicalità delle note.
RispondiEliminaCompletezza e chiarezza di un pensiero mobilissimo e profondo, di vera nuova epica, in questo tuo poemetto, Alessandra. E colpisce il contrasto, così ben delineato in visioni e ritmo, tra le illusioni dell’adolescenza, il luccichìo degli anni del boom economico, e il disincanto dell’oggi, che trapela in tutto il suo sgomento. E’ un percorso in cui mi riconosco interamente, con molta tristezza (di fronte alla deriva attuale)che sempre si rinnova.
RispondiElimina"Ma tutti i compleanni sono esequie/ è lì che muore la nostra non vita "
E straordinaria trovo in chiusa la metafora del re in cui vedo un’umanità insulsamente piangente sui propri errori che come per una nefasta fatalità si ripetono allontanando il traguardo sperato
"Sapeva e piangeva/ quel re, non di dolore ma di storia/ piangeva la partenza dalla fine/ e l’arrivo in eterno rimandato"
Un saluto caro,
annamaria
Firmo per esteso il precedente commento. sono Annamaria Ferramosca
RispondiEliminaOlga karasso mi chiede do inserire questo commento e lo faccio molto volentieri: Questi versi - molto apprezzati - mi hanno raggiunto come una nostalgia profonda di momenti esaltanti di energia, seppur gravi, che oggi non si sa più se furono illusioni o semplici sogni. Vita comunque. Olga Karasso
RispondiEliminaVi ringrazio per le bellissime, partecipi letture.La chiusa è ispirata a un passo di Erodoto, dalle "Storie", in cui il GRan Re Serse passa in rassegna i suoi soldati e improvvisamente scoppia a piangere...il suo luogotenente gli chiede perché e Serse risponde: "Perché sono certo che nessuno di questi giovani sarà ancora vivo fra cent'anni". E' un passo di poesia altissima, che per me racchiude tutto il senso dell'epica: in una parola soltanto, Serse non pensava alla propria morte (e infatti l'epica classica è quanto di meno "intimistico" esista!!!!...a proposito di poeti che si guardano l'ombelico, e sono ancora tanti...) e forse neppure alla morte di quei giovani: pensava al tempo, al tempo distruttore. E questa prospettiva ha avuto ragione su tutto, non in astratto, ma tanto da suscitare un sentimento così umano come la commozione. Per me con quel passo Erodoto - storico sui generis, arcaico, EPICO per eccellenza, abituato ancora a mescolare narrativa e storia e a riferirsi a fonti per lo più orali - ha avuto qui un'intuizione formidabile su ciò che la metodologia storica "aggiornata" spesso non vuole comprendere: che il tempo, oltre a distruggere, costruisce la possibilità della distanza, cioà della storia (che significa, dall'etimo "oida", appunto visione. In altre parole: la distrugge ma la rende possibile, come è possibile leggere un giornate soltanto se non lo teniamo attaccato al viso. Di un evento si può parlare, paradossalmente, quando sono morti tutti i suoi protagonisti, fino all'ultimo (i cent'anni di Erodoto!!!). E' il grande paradosso della storiografia, e il motivo per cui è ancora troppo presto parlare di eventi traumatici come la resistenza o la Shoah. Non saremo forse noi, nessuno di noi, a poterne parlare, ma i nostri figli e i nostri nipoti.
RispondiEliminaIl tuo timbro di voce, Ale, è un bell'incrocio - che si è via via definito sempre meglio - tra levità e profondità, tra vento e pietre, tra quell'incrocio (che come sai per me è fondamnetale) tra complessità e transitività.
EliminaAdam
Il tuo timbro di voce, Ale, è un bell'incrocio - che si è via via definito sempre meglio - tra levità e profondità, tra vento e pietre, tra quell'incrocio (che come sai per me è fondamnetale) tra complessità e transitività.
EliminaAdam
Bel testo...lo avevo GIÀ letto...mi piace per intensità e precisione.brava Alessandra
RispondiEliminaBel testo...lo avevo GIÀ letto...mi piace per intensità e precisione.brava Alessandra
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