IN MEMORIA DI DEREK WALCOTT.
Derek Walcott ci
ha lasciati, ma la sua generosità di autore e di uomo ci consegna una
cornucopia di testi e di emozioni che non smetteranno di accompagnarci nel
tempo; ma anche di lavoro critico da intraprendere. Quando creammo questo blog
pensammo subito a lui come a un poeta imprescindibile e citavamo
dall’introduzione di Andrea Molesini a Omeros
questa frase:
“Molti hanno detto, senza tema di smentita,
che i nostri tempi non sono adatti alla forma del poema epico. Poi un giorno è
arrivato Derek Walcott...”
La ripetiamo oggi
come omaggio e punto di partenza per un ulteriore approfondimento e
riflessione, ponendoci un interrogativo: quale impresa notevole c’è al centro
dell’opera del poeta caraibico? La domanda ci porta anche nel vivo di un
dibattito contemporaneo e non storicistico sulla vitalità dell’epica come
genere. Al centro della poetica di Walcott c’è un nucleo densissimo e lacerante
da cui tutto si muove e si estende a macchia d’olio in diverse direzioni e rami
collaterali: la natura sontuosa dei Caraibi come bellezza assoluta e silente da
un lato, il dominio coloniale, che è però al tempo stesso il solo portatore di
cultura, dall’altro. L’assenza di mediazione culturale rispetto a quella natura
sontuosa dovette apparirgli come un inganno e la possibilità di abbandonarsi
semplicemente ad essa un modo di scivolare dall’innocenza all’ingenuità. Peso e
ricchezza della tradizione divennero così per lui i due volti di Giano, la
lingua il terreno naturale di scontro: lingua anch’essa dei dominatori, sebbene
il patois svolga un ruolo assai importante nella poesia di Walcott, nonostante
le poche volte che vi compare. Naturalmente, ai suoi occhi, il rifiuto della
tradizione, così di moda nel ‘900 occidentale, era un lusso che non poteva
permettersi e questo ci riporta a noi stessi, perché Walcott, nel suo
vertiginoso viaggio, ci restituisce anche un’immagine della nostra cultura,
vista da un luogo remoto ma non periferico: con tale immagine, che ha molto da
insegnarci, dovremo fare i conti in futuro.
A riprova di
quanto affermato, proponiamo qui alcuni testi tratti da Prima Luce: la traduzione è di Andrea Molesini.
Da Il dono (The bounty):V.
Tutte queste onde crepitano dalla cultura dio
Ovidio,/le sue sibilanti e consonanti; un metro universale/accumula queste
firme come iscrizioni di alghe//che si seccano nel sole pungente,versi
governati da mitra/e lauro, o ramoscello fiorito che svelto inghirlanda la
fronte/(e spero che questo sistemi la questione//delle presenze). Nessuna anima
fui mai inventata,eppure ogni presenza è trasparente; se l’incontrassi/(in
camicia da notte, scalza, che canticchia alle secche),//dovrei definire La sua
ombra un modello inventato/da un disegno greco-romano, colonne di
ombre/proiettate dal Foro, prospettive augustee -/pioppi, colonnati di
casuarine, la traforata luce dei mandorli/tratta dall’originale latino, nessuna
foglia se non dell’ulivo?/ Problemi di intonazione al cospetto dello splendore
serafico/…
Da Manet in Martinica.
La
pianta del tek era rigida come gomma vicino alla grata/di ferro della veranda
rosa al cui centro un’arcata/immetteva in un tenebroso salotto strapieno,con la
solita nave/ a vele spiegate tra onde di legni, tra veli inamidati,/e introno,
in dolenti foto ritoccate, una famiglia francese: /grandpa barbuto e grand-mère
dalla crocchia nera,/cuscini con nappe, porcellane, souvenir come prosa/che
avesse perso il suo bouquet, Lafcadio Hearn, il solito Flaubert,/ancora memoir
di viaggio,un vaso giapponese, una rosa bianca,/di cera perenne. Il padrone di
casa uscì per una telefonata./Provai una incommensurabile tristezza per le vele
della nave,/per il silenzio stagnante delle cose,il muto passato che
trasportano,/la fugace vista del porto di Fort de France oltre la grata/«Notre
ame est un trois-mats cherchant son Icarie -»/Baudelaire dall’anima vagabonda.
Tutto questo nella falsa metro polle/della Martinica. La ventola rimescolava
una storia di Maupassant./Dov’era l’anima della casa? Qualche cliché per occhi
carichi/ di bistro, per labbra come petali di buganvillea in Manet./ Sentivo che il salotto, finestre chiuse,
voleva richiamare,/se possibile, Parigi; girai le spalle al muro e vidi,/vuoto
di desiderio come sul muro il clipper nella cornice dorata,/accanto a rigide
foglie di gomma nell’aria greve del pomeriggio,/sfilata dal suo piede di marmo,
una rossa pianella di raso.
Da
Egloghe italiane:I. a Iosif Brodskij
Sulla
chiara strada per Roma,oltre Mantova,/c’erano canne di riso,e ho
udito,nell’eccitazione del vento,/i cani bruni del latino ansimare a fianco
dell’auto,/le loro ombre scivolare sul ciglio in levigata traduzione,/campi
recintati di pioppi,caratteristiche fattorie in pietra,/sostantivi di un testo
di scuola,virgiliani, oraziani,/frasi Ovidio ci superano in una macchia
verde,/puntando verso prospettive di busti senza naso,/rovine bocche-aperte, e
scoperchiarti corridoi,/di Cesari che per mantello ora hanno la polvere,/e la
voce che fruscia fra le canne è la tua./Per ogni verso c’è un tempo e una
stagione./Hai rinfrescato forme e strofe; questi ispidi campi mietuti/sono la
tua barba che mi gratta le guance nel commiato,/iridi grigie per i tuoi capelli
ciuffi di grano soffiati via./Dimmi che non sei svanito, che sei ancora in Italia./
Sì, molto calmo Dio. Calmo come i campi dissodati/della Lombardia, calmo come
le scorie bianche di quella prigione/pagine cancellate da un regime. Anche se
il paesaggio lenisce/l’esilio che hai condiviso con Ovidio, la poesia resta
tradimento/ perché è verità. I tuoi pioppi fremono nel sole./