Si potrebbe un po’ paradossalmente
sottilizzare su un Grammelot di Dylan e su un carisma dylaniano di Fo. Il primo
caso riguarda un uso e un cantare scolpito di termini spesso stranianti, di
difficile interpretazione immediata (cioè l’opposto del Grammelot di Fo,
sbiascicato in cui capisci tutto), ma con grande nitore d’appeal poetico… ecco, nitore d’appeal
poetico in Dylan, la sensazione di avere a che fare con una forza della poeticità prima che con un individuo dotato
di poeticità; sensazione talmente violenta da invadere chi ascoltava senza
capire nulla dei testi, anche a causa di elementare ignoranza linguistica… cosa
scontata col Pop internazionale o
col Rock più o meno progressivo; assai
di meno con un declamato non esattamente
melodico e latino su chitarra e armonica, come era specie nei primi tempi: una
capacità “naturale” anche a-semantica e trans-semantica tale da giustificare a
monte quanto di esaltante è stato proferito su quest’uomo, compreso il giudizio
che l’ha portato al Nobel. Una simile
personificazione riguarda Fo rispetto il teatro. Era un Guitto, sì, ma
di una grandezza sconvolgente. La caratura intellettuale era onesta,
vivacizzata dalla indomita curiosità, solida e purificata dalla concretezza
della pratica teatrale. Per entrambi il Cristianesimo fu una ossessione, un
amore intrigato e smodato, da presupposti ebraici l’uno e materialistici
l’altro. Due personificazioni della
rispettiva disciplina e notevoli intellettuali-ponte tra cultura popolare,
critica laica e suggestione spirituale: tanto per cominciare a snocciolare
qualche prima affinità.
Fo non fu mai “rinato” ma nel rapporto
col Cristianesimo trovo notevole (più della dissacrazione dei Vangeli, che ai
tempi della massima diffusione recitata sul campo di “Mistero” era faccenda
assai manovrata, da parecchi e tutti ben lontani dalla grazia e dalle
profondità Pasoliniane) la sua valorizzazione non tanto in chiave moderna,
quanto in quella di fondamentale apporto alla Modernità. Per un intellettuale
della nostra area non è cosa da poco evitare di fermarsi ad antitesi consuete e
definitive sul ruolo della Religione in genere. In modo diverso rispetto a
Pasolini (che nella fase “luterana” può forse essere accostato proprio a Dylan,
per una specie di dualismo esaltato e quasi misteriosofico), Fo era colpito
(come almeno ho ritenuto ascoltandolo) da quell’incontro-identificazione tra
Logos e Amor, che in effetti innestò, nel passo tra l’alto e il basso medioevo
(passo fondamentale anche per l’epicanuova, come analizzato sempre in questa
sede), i primi semi del Diritto di Natura (Ius Naturae) come diritto universale
umano, e quindi anche delle politiche civili e sociali nei secoli a venire.
Questa valutazione del maturo Fo, che ho tradotta secondo il senso che ne ho
colto, è tanto più notevole perché riferita a una linea “classica” del
pensiero, e non, come più facile e scontato, al mondo eresiale o para eresiale,
di cui egli conosceva e celebrava benissimo e moltissimo il peso politico.
Sottolineo questo aspetto perché illumina ulteriormente sulla cristallina
vivacità e onestà intellettuale di questo grande personaggio, e perché
personalmente non conosco un autore che sia (stato) grandissimo, senza aver
operato una sintesi non solo formale, ma
anche generalmente morale e pedagogica con elementi sapienziali della
Tradizione (o viceversa, se si parte da questi ultimi per apportare una
rilevante integrazione critica). I nomi, e le inevitabili costatazioni, ognuno
può farseli da solo.
A proposito di Pasolini, devo accennare
all’influenza enorme subitane già da ragazzo, in relazione proprio all’impatto
con un Mistero Buffo gustato dal vivo, presso un Tenda Strisce capitolino,
qualche anno dopo la sciagura dell’Idroscalo. Io posso affermare in tutta
verità che avrei conosciuto personalmente Pasolini entro pochi giorni o al
massimo settimane dalla data che poi è stata quella della sua morte, alla
vigilia-per dare l’idea-del mio sedicesimo compleanno. All’epoca frequentavo
molto, da amico e curioso, il gruppo di Franzoni a viale Ostiense, nel periodo
in cui Pasolini invitava pubblicamente e affettuosamente l’ex Abate a farsi
luterano; e frequentavo molto pure il cineforum di quel gruppo, essendo addirittura“attore”di
filmografia sperimentale in super8, appannaggio di amici che quel cineforum
gestivano direttamente, interpellandomi anche (ma erano intorno i venti loro, e
ai quindici io). Non ricordo visite di Pasolini alla Comunità-franzoniana-di
Base (che era oltretutto a poche decine di metri da “il Biondo Tevere”
intendendo il ristorante della sua cena ultima) nei periodi precedenti; ma so
che avemmo Paolo Taviani ed aspettavamo
Lui.
Nei successivi anni liceali divenni un
pasoliniano fanatico e quasi claustrale, in lutto permanente per quella
scomparsa atroce sopravvenuta a un passo dall’incontro. La mia formazione era
totalmente infarcita del trinomio cinema-poesia-narrativa, con un gap
gravissimo proprio verso il teatro “teatrante”, che ancora in parte mi porto
dietro. Sbirciai in quel Tenda Strisce con l’atteggiamento di chi assiste a uno
spettacolo “chic di massa” lontano da qualsiasi affinità personale, e nella
lunga sequela tra gli “arcangeli poliziotteschi” e i monologhi seri e straziati
della grandissima Franca (ricordiamo anche Lei) fui più volte sul punto di
andarmene. Trovai molti di quegli sberleffi assai “alla moda”, ma ero io il
cretino che si sentiva l’alternativo degli alternativi, solo appena
giustificato dai precedenti descritti, che mi imponevano quasi di sentirmi a
disagio. La mia è una autocritica sincera, per quel poco che possa interessare.
Non si può comunque tacere il fatto che a Fo molto fu tolto ma anche dato, pur
prescindendo dal giusto Nobel; e così non è stato per autori e intellettuali
italiani altrettanto grandi e finiti nel quasi totale dimenticatoio. Certo, la
pratica teatrale da una parte esclude (per colpa di una elitaria e malintesa
letteralità letteraria) e dall’altra aiuta (per l’apporto di pubblico
concreto); e molto la teoresi e la prassi di Fo aiutarono me, in modo tanto
clamoroso proprio in virtù d’un contrasto tanto sfavorevole come quello nella
mia seconda adolescenza. Se ho infarcito tutti i miei volumi di locandine coi
personaggi e di brani fortemente
teatralizzabili, lo devo tutto o quasi a quella esperienza, che mi ha
portato decenni dopo a parlare di Fo come un Maestro (quale ovviamente era, ma
non così scontatamente in una storia come la mia) dentro una nota di
antropologia letteraria, a me molto cara e importante (su “lo Psiconte”), in
coda alla mia Materia di Britannia. E’ una testimonianza piccola e forse troppo
intima, ma è quella che posso fornire, a pieno personale tributo alla caratura
del nostro ultimo Premio Nobel alla Letteratura.
Il Nobel in questi due casi,
immaginandoli come contemporanei ed è facile per le note fatali sincronie, è
come sia stato conferito a una essenza che è anche un principio di forma, che
connette in profondità commedia
dell’arte, teatro epico moderno ed epica-e lirica- canora e folklorica. Approvo
quanto dice Romanò sulle “marginalità centrali” dei generi in questione (teatro
“teatrante” e canzone d’autore, da
intendersi come “sconfinamenti
terapeutici” di andazzi oppostamente malati di troppa o punta intellettualità),
ma quanto mi piace cogliere riguarda una intenzione nascosta che premierebbe,
come differenziale squisitamente letterario, la personalità artistica e dunque
quasi una specie di nuova (virgolette moltiplicabili a piacere) “aura” posta al
servizio della cultura popolare. Non so se nelle intenzioni dei Giudici svedesi
ci siano state tutte queste intenzioni nascoste, e comunque non credo volessero
dare dignità a dei generi che non ne hanno il bisogno (già di loro
gaudentissimi quando trovano il loro pubblico), quanto forse alludere a una
vivificazione generale attraverso l’incorporazione di fattori periferici che in
realtà non sono tali, come una vocazione“d’arte”certa e universalmente o quasi
accertata, e per l’appunto una sensibilità trasversale e fertile tra critica e
humus, capace di innalzare la cosiddetta semi-cultura (meticcia se non a ribasso,
itinerante e bottegaia) per rigenerare la cultura tout court, spesso auto
telica-referenziale, fino a finalmente collimarvi.