venerdì 16 dicembre 2016

Su Fo e Dylan il dibattito continua: Paolo Borzi

Pubblichiamo un'ampia riflessione di Paolo Borzi, su Dario Fo e Bob Dylan.




Si potrebbe un po’ paradossalmente sottilizzare su un Grammelot di Dylan e su un carisma dylaniano di Fo. Il primo caso riguarda un uso e un cantare scolpito di termini spesso stranianti, di difficile interpretazione immediata (cioè l’opposto del Grammelot di Fo, sbiascicato in cui capisci tutto), ma con grande nitore  d’appeal poetico… ecco, nitore d’appeal poetico in Dylan, la sensazione di avere a che fare con una forza della  poeticità prima che con un individuo dotato di poeticità; sensazione talmente violenta da invadere chi ascoltava senza capire nulla dei testi, anche a causa di elementare ignoranza linguistica… cosa scontata  col Pop internazionale o col  Rock più o meno progressivo; assai di meno con  un declamato non esattamente melodico e latino su chitarra e armonica, come era specie nei primi tempi: una capacità “naturale” anche a-semantica e trans-semantica tale da giustificare a monte quanto di esaltante è stato proferito su quest’uomo, compreso il giudizio che l’ha portato al Nobel. Una simile  personificazione riguarda Fo rispetto il teatro. Era un Guitto, sì, ma di una grandezza sconvolgente. La caratura intellettuale era onesta, vivacizzata dalla indomita curiosità, solida e purificata dalla concretezza della pratica teatrale. Per entrambi il Cristianesimo fu una ossessione, un amore intrigato e smodato, da presupposti ebraici l’uno e materialistici l’altro.  Due personificazioni della rispettiva disciplina e notevoli intellettuali-ponte tra cultura popolare, critica laica e suggestione spirituale: tanto per cominciare a snocciolare qualche prima affinità.

Fo non fu mai “rinato” ma nel rapporto col Cristianesimo trovo notevole (più della dissacrazione dei Vangeli, che ai tempi della massima diffusione recitata sul campo di “Mistero” era faccenda assai manovrata, da parecchi e tutti ben lontani dalla grazia e dalle profondità Pasoliniane) la sua valorizzazione non tanto in chiave moderna, quanto in quella di fondamentale apporto alla Modernità. Per un intellettuale della nostra area non è cosa da poco evitare di fermarsi ad antitesi consuete e definitive sul ruolo della Religione in genere. In modo diverso rispetto a Pasolini (che nella fase “luterana” può forse essere accostato proprio a Dylan, per una specie di dualismo esaltato e quasi misteriosofico), Fo era colpito (come almeno ho ritenuto ascoltandolo) da quell’incontro-identificazione tra Logos e Amor, che in effetti innestò, nel passo tra l’alto e il basso medioevo (passo fondamentale anche per l’epicanuova, come analizzato sempre in questa sede), i primi semi del Diritto di Natura (Ius Naturae) come diritto universale umano, e quindi anche delle politiche civili e sociali nei secoli a venire. Questa valutazione del maturo Fo, che ho tradotta secondo il senso che ne ho colto, è tanto più notevole perché riferita a una linea “classica” del pensiero, e non, come più facile e scontato, al mondo eresiale o para eresiale, di cui egli conosceva e celebrava benissimo e moltissimo il peso politico. Sottolineo questo aspetto perché illumina ulteriormente sulla cristallina vivacità e onestà intellettuale di questo grande personaggio, e perché personalmente non conosco un autore che sia (stato) grandissimo, senza aver operato  una sintesi non solo formale, ma anche generalmente morale e pedagogica con elementi sapienziali della Tradizione (o viceversa, se si parte da questi ultimi per apportare una rilevante integrazione critica). I nomi, e le inevitabili costatazioni, ognuno può farseli da solo.

A proposito di Pasolini, devo accennare all’influenza enorme subitane già da ragazzo, in relazione proprio all’impatto con un Mistero Buffo gustato dal vivo, presso un Tenda Strisce capitolino, qualche anno dopo la sciagura dell’Idroscalo. Io posso affermare in tutta verità che avrei conosciuto personalmente Pasolini entro pochi giorni o al massimo settimane dalla data che poi è stata quella della sua morte, alla vigilia-per dare l’idea-del mio sedicesimo compleanno. All’epoca frequentavo molto, da amico e curioso, il gruppo di Franzoni a viale Ostiense, nel periodo in cui Pasolini invitava pubblicamente e affettuosamente l’ex Abate a farsi luterano; e frequentavo molto pure il cineforum di quel gruppo, essendo addirittura“attore”di filmografia sperimentale in super8, appannaggio di amici che quel cineforum gestivano direttamente, interpellandomi anche (ma erano intorno i venti loro, e ai quindici io). Non ricordo visite di Pasolini alla Comunità-franzoniana-di Base (che era oltretutto a poche decine di metri da “il Biondo Tevere” intendendo il ristorante della sua cena ultima) nei periodi precedenti; ma so che avemmo Paolo Taviani ed aspettavamo  Lui.

Nei successivi anni liceali divenni un pasoliniano fanatico e quasi claustrale, in lutto permanente per quella scomparsa atroce sopravvenuta a un passo dall’incontro. La mia formazione era totalmente infarcita del trinomio cinema-poesia-narrativa, con un gap gravissimo proprio verso il teatro “teatrante”, che ancora in parte mi porto dietro. Sbirciai in quel Tenda Strisce con l’atteggiamento di chi assiste a uno spettacolo “chic di massa” lontano da qualsiasi affinità personale, e nella lunga sequela tra gli “arcangeli poliziotteschi” e i monologhi seri e straziati della grandissima Franca (ricordiamo anche Lei) fui più volte sul punto di andarmene. Trovai molti di quegli sberleffi assai “alla moda”, ma ero io il cretino che si sentiva l’alternativo degli alternativi, solo appena giustificato dai precedenti descritti, che mi imponevano quasi di sentirmi a disagio. La mia è una autocritica sincera, per quel poco che possa interessare. Non si può comunque tacere il fatto che a Fo molto fu tolto ma anche dato, pur prescindendo dal giusto Nobel; e così non è stato per autori e intellettuali italiani altrettanto grandi e finiti nel quasi totale dimenticatoio. Certo, la pratica teatrale da una parte esclude (per colpa di una elitaria e malintesa letteralità letteraria) e dall’altra aiuta (per l’apporto di pubblico concreto); e molto la teoresi e la prassi di Fo aiutarono me, in modo tanto clamoroso proprio in virtù d’un contrasto tanto sfavorevole come quello nella mia seconda adolescenza. Se ho infarcito tutti i miei volumi di locandine coi personaggi e di brani fortemente  teatralizzabili, lo devo tutto o quasi a quella esperienza, che mi ha portato decenni dopo a parlare di Fo come un Maestro (quale ovviamente era, ma non così scontatamente in una storia come la mia) dentro una nota di antropologia letteraria, a me molto cara e importante (su “lo Psiconte”), in coda alla mia Materia di Britannia. E’ una testimonianza piccola e forse troppo intima, ma è quella che posso fornire, a pieno personale tributo alla caratura del nostro ultimo Premio Nobel alla Letteratura.

Il Nobel in questi due casi, immaginandoli come contemporanei ed è facile per le note fatali sincronie, è come sia stato conferito a una essenza che è anche un principio di forma, che connette in profondità  commedia dell’arte, teatro epico moderno ed epica-e lirica- canora e folklorica. Approvo quanto dice Romanò sulle “marginalità centrali” dei generi in questione (teatro “teatrante”  e canzone d’autore, da intendersi  come “sconfinamenti terapeutici” di andazzi oppostamente malati di troppa o punta intellettualità), ma quanto mi piace cogliere riguarda una intenzione nascosta che premierebbe, come differenziale squisitamente letterario, la personalità artistica e dunque quasi una specie di nuova (virgolette moltiplicabili a piacere) “aura” posta al servizio della cultura popolare. Non so se nelle intenzioni dei Giudici svedesi ci siano state tutte queste intenzioni nascoste, e comunque non credo volessero dare dignità a dei generi che non ne hanno il bisogno (già di loro gaudentissimi quando trovano il loro pubblico), quanto forse alludere a una vivificazione generale attraverso l’incorporazione di fattori periferici che in realtà non sono tali, come una vocazione“d’arte”certa e universalmente o quasi accertata, e per l’appunto una sensibilità trasversale e fertile tra critica e humus, capace di innalzare la cosiddetta semi-cultura (meticcia se non a ribasso, itinerante e bottegaia) per rigenerare la cultura tout court, spesso auto telica-referenziale, fino a finalmente collimarvi.