lunedì 16 dicembre 2013

TESTI MANIFESTI



    TESTI MANIFESTI




PABLO NERUDA

Risultati immagini per Machu Picchu



La recente inchiesta da parte di una commissione internazionale avvalora il sospetto, sempre avanzato dalla famiglia, di un suo avvelenamento da parte della dittatura di Pinochet. La verità si sta facendo strada e tanto più, allora, tenere viva l’attenzione su di lui e sulla sua grande poesia è necessario nei nostri tempi a rischio costante di deprivazione della memoria.
Dal Canto General: Alturas de Machu Picchu.
VI

Entonces en la escala de la tierra he subido 
entre la atroz maraña de las selvas perdidas 
hasta ti, Macchu Picchu. 
Alta ciudad de piedras escalares, 
por fin morada del que lo terrestre 
no escondió en las dormidas vestiduras. 
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas.
Madre de piedra, espuma de los cóndores. 
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena.
Ésta fue la morada, éste es el sitio: 
aquí los anchos granos del maíz ascendieron
y bajaron de nuevo como granizo rojo.
Aquí la hebra dorada salió de la vicuña
a vestir los amores, los túmulos, las madres,
el rey, las oraciones, los guerreros.
Aquí los pies del hombre descansaron de noche
junto a los pies del águila, en las altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la niebla enrarecida, 
y tocaron las tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la muerte.
Miro las vestiduras y las manos,
el vestigio del agua en la oquedad sonora,
la pared suavizada por el tacto de un rostro
que miró con mis ojos las lámparas terrestres,
que aceitó con mis manos las desaparecidas
maderas: porque todo, ropaje, piel, vasijas, 
palabras, vino, panes,
se fue, cayó a la tierra.
Y el aire entró con dedos
de azahar sobre todos los dormidos:
mil años de aire, meses, semanas de aire, 
de viento azul, de cordillera férrea,
que fueron como suaves huracanes de pasos
lustrando el solitario recinto de la piedra.
X.
Piedra en la piedra, el hombre, dónde estuvo?
Aire en el aire, el hombre, dónde estuvo?
Tiempo en el tiempo, el hombre, dónde estuvo?
Fuiste también el pedacito roto
de hombre inconcluso, de águila vacía
que por las calles de hoy, que por las huellas,
que por las hojas del otoño muerto
va machacando el alma hasta la tumba?
La pobre mano, el pie, la pobre vida...
Los días de la luz deshilachada
en ti, como la lluvia
sobre las banderillas de la fiesta,
dieron pétalo a pétalo de su alimento oscuro
en la boca vacía?
Hambre, coral del hombre,
hambre, planta secreta, raíz de los leñadores,
hambre, subió tu raya de arrecife
hasta estas altas torres desprendidas?

Yo te interrogo, sal de los caminos,
muéstrame la cuchara, déjame, arquitectura,
roer con un palito los estambres de piedra,
subir todos los escalones del aire hasta el vacío,
rascar la entraña hasta tocar el hombre.
Macchu Picchu, pusiste
piedra en la piedra, y en la base, harapos?
Carbón sobre carbón, y en el fondo la lágrima?
Fuego en el oro, y en él, temblando el rojo
goterón de la sangre?
Devuélveme el esclavo que enterraste!
Sacude de las tierras el pan duro
del miserable, muéstrame los vestidos
del siervo y su ventana.
Dime cómo durmió cuando vivía.
Dime si fue su sueño
ronco, entreabierto, como un hoyo negro
hecho por la fatiga sobre el muro.
El muro, el muro! Si sobre su sueño
gravitó cada piso de piedra, y si cayó bajo ella
como bajo una luna, con el sueño!
Antigua América, novia sumergida,
también tus dedos,
al salir de la selva hacia el alto vacío de los dioses,
bajo los estandartes nupciales de la luz y el decoro,
mezclándose al trueno de los tambores y de las lanzas,
también, también tus dedos,
los que la rosa abstracta y la línea del frío, los
que el pecho sangriento del nuevo cereal trasladaron
hasta la tela de materia radiante, hasta las duras cavidades,
también, también, América enterrada, guardaste en lo más bajo
en el amargo intestino, como un águila, el hambre?
VI

Allora sulla scala della terra sono salito,
tra gli atroci meandri delle selve perdute,
fino a te, Machu Picchu.
Alta città di pietra scalinata,
dimora  degli esseri che il terrestre
non poté celare nelle vesti assonnate.
In te, come due linee parallele,
la culla del tempo e quella dell’uomo
si dondolano in un vento di rovi.

Madre di pietra, schiuma dei condor.
Alta scogliera dell’aurora umana.
Pala sperduta nella prima spiaggia.
Questa fu la dimora, questo è il luogo:
qui salirono i grossi chicchi del granoturco
e scesero di nuovo come grandine rossa.

Qui la gugliata sfuggì dalla vigogna
per vestire gli amori, i sepolcri, le madri,
il re, le preghiere, i guerrieri.

Qui i piedi dell’uomo riposarono la notte
accanto ai piedi dell’aquila, nelle alte tane
carnivore, e all’alba
calpestarono con i piedi del tuono la nebbia rarefatta,
e toccarono le terre e le pietre
per poi riconoscerle nella notte e nella morte.
Guardo i vestimenti e le mani,
la traccia dell’acqua nella cavità sonora,
la parete addolcita al contatto d'un volto
che guardò con i miei occhi le lampade terrene,
che unse con le mie mani gli scomparsi legni: 
perché tutto, vesti, pelle, vasi,
parole, vino, pani,
tutto scomparve e ritornò alla terra.

E l’aria calò con dita
di zagara sui dormienti:
mille anni di aria, mesi, settimane di aria,
di vento azzurro, di ferrea cordigliera,
trascorsi come soavi uragani di passi
a levigare il remoto recinto della pietra. 

X.

Pietra sulla pietra, e l’uomo dov’era?
Aria nell’aria, e l’uomo dov’era?
Tempo nel tempo, e l’uomo dov’era?
Forse la particella infranta fosti
dell’uomo incompiuto, dell’aquila vuota
che sulle strade d’oggi, sulle orme,
che sulle foglie dell’autunno morto
si stritola l’anima fino alla tomba?
Povera la mano, il piede, la vita...
Forse i giorni di luce sfilacciata
in te, come la pioggia
sopra le banderillas della fiesta,
diedero, petalo a petalo, il loro cibo
oscuro alla bocca vuota?
Fame, corallo dell’uomo,
fame, pianta segreta, radice dei taglialegna,
fame, è salita la tua linea di scogli
sino a queste alte torri distaccate?

Io t'interrogo, sale delle strade,
mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura,
raschiare con uno stecco gli stami di pietra,
salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto,
grattare le viscere fino a toccare l’uomo.

Macchu Picchu, posasti tu
pietra su pietra, e, alla base, stracci?
Carbone su carbone, e, al fondo, pianto?
Fuoco nell’oro, e, in esso, tremante,
il rosso grondare del sangue?
Ridammi lo schiavo che hai seppellito!
Rimuovi dalle terre il duro pane
dell’infelice,  mostrami le vesti
del servo, la sua finestra.
Dimmi come dormì quando viveva.
Dimmi se fu il suo sonno
rauco, socchiuso, come un buco nero
scavato dalla fatica sul muro.
Il muro! Dimmi se sopra il suo sonno
gravò ogni strato di pietra, e s’egli vi cadde sotto
come sotto una luna, col suo sonno!
Antica America, sposa sommersa,
anche le tue dita,
nell’uscire dalla selva verso l’alto vuoto degli dei,
sotto gli stendardi nuziali della luce e del decoro,
mischiandosi al tuono dei tamburi e delle lance,
anche, anche le tue dita,
quelle che la rosa astratta e la linea del freddo,
quelle che il petto sanguigno 
del nuovo cereale trasportarono
fine alla tela di materia radiosa, 
fino alle dure cavità,
anche, anche tu, America sepolta, 
conservasti nel più profondo,
giù nell’amaro intestino, 
come un’aquila, la fame?

***  

Io sono il pellegrino
dell’Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l’aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar…»
da Gli uomini
                                                                                                  ***
Il Dittatore.
È rimasto un odore tra i canneti:
un misto di sangue e carne,
un penetrante
petalo nauseabondo.
Tra le palme da cocco le tombe sono piene
di ossa demolite, di ammutoliti rantoli.
Il delicato satrapo conversa
tra coppe, colletti e cordoni d'oro.
Il piccolo palazzo luccica come un orologio
e le felpate e rapide risate
attraversano a volte i corridoi
e si riuniscono alle voci morte
e alle bocche azzurre sotterrate di fresco. 
Il dolore è celato, simile ad una pianta
il cui seme cade senza tregua sul suolo
e fa crescere al buio le grandi foglie cieche.
L'odio si è formato squama su squama,
colpo su colpo, nell'acqua terribile della palude,
con un muso pieno di melma e silenzio.
                                                         ***
Il Canto General è l’opera più importante di Pablo Neruda, un lunghissimo poema di cui sono riportate qui sopra la parte sesta e la decima della sezione Alturas de Macchu Picchu: la traduzione italiana è di Giuseppe Bellini. A queste due sezioni del poema aggiungiamo due brevi ma assai significative poesie. Lo riproponiamo oggi nella convinzione che in Italia il nome di Neruda sia ora caduto in oblio, come fu invece maggiormente celebrato proprio a cavallo degli anni sessanta e settanta per i Cento Sonetti d’amore e una canzone disperata, opera che – pur importante – ci sembra tuttavia più scontata e datata.
Originale nella sua ispirazione, il Canto si discosta dai modelli precedenti ed europei nel modo di considerare la natura come un soggetto ed un oggetto di poesia epica che precede la storia umana e che poi la incontra e la interroga. Per un europeo è un testo sorprendente, affascinante per la sua lontananza e tuttavia capace di toccare corde profonde, le cui radici si perdono in una memoria arcaica. Lo sguardo di Neruda è rivolto in due direzioni per noi fuori dal comune: le altezze vertiginose della catena andina e le estensioni altrettanto vertiginose dell’Oceano Pacifico. Non è un caso che la sua poesia si estenda e arrivi a comprendere nel suo abbraccio l’Isola di Pasqua, quel punto estremo del mondo, cui sono legati miti diversi dai nostri: Rapa Nui e le avventure ancestrali di un popolo che, imbarcatosi sulle canoe per quelle lontane isole, non poté tornare indietro per via delle correnti avverse. Il nostro oceano è quello Atlantico, che da Colombo in poi è lo è per modo dire, con il suo vai e vieni continuo; abitatissimo, nonostante la distanza e con il continente europeo che si espone molto in là verso il nord di quello americano. Il Pacifico è un’altra cosa. Da quelle altezze e lontananze che ispirano naturalmente anche alla devozione, Neruda sa tuttavia tornare al lavoro, alla terra che offre il suo cibo, quello povero in particolare, come avviene in un testo straordinario come l’Ode alla cipolla.  
Vi è però una seconda ragione che fa di Neruda un poeta diverso anche dagli altri del continente latino americano. Nonostante il suo rapporto d’amore viscerale con la Spagna della Repubblica, che lo vide fra i protagonisti di quella vicenda tragica, nel 1936, egli resta comunque meno europeo e più sudamericano di molti altri, forse di tutti, nonostante alcuni critici lo associno in qualche modo alla poetica surrealista; il solo che gli si può accostare,forse è il brasiliano Joao Guimaraes Rosa. Altri scrittori e poeti importanti di quel continente, hanno nell’Europa un punti di riferimento spesso decisivo, simile alla relazione che i primi poeti e narratori statunitensi avevano con l’Inghilterra o con Parigi agli inizi del ‘900 e che nel caso dei latino americani, gli argentini in particolare,  è vivo ancora oggi. Neruda, invece, guarda il mondo dal suo continente e ne fa materia di una grande poesia epica. Anche la sua ostilità nei confronti del nord statunitense è diversa da quella di altri, a volte dettata da una rabbia subalterna, piuttosto che dalla sprezzatura di chi sa coltivare le proprie grandezze. La distanza dal mondo anglo-statunitense è, per queste ragioni, culturale prima che politica e precede la sua militanza comunista, che fu altrettanto intransigente. Lo testimonia il primo dei due brevi testi finali. Pellegrino umile e devoto verso l’isola di Pasqua, guarda di uno sguardo sprezzante i pesanti pellegrini inglesi che allattano e innalzano rovine   e i commensali del turismo. Infine la poesia di chiusura ci riporta alla tragedia della dittatura di Pinochet.





CESARE PAVESE
Da ‘Lavorare stanca’, (Poesie, Einaudi, Torino 1961)

I mari del sud.                                         A Monti.

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.

Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -

per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino... "
mi ha detto "...ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".


Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent'anni è stato in giro per il mondo.
Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E stacco il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
se il è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi ".
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-rèclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.


Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
"Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza".
Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
scrivo sul manifesto: - Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo - e che la dicano
quei di Canelli ". Poi riprende l'erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

(Poesie, Einaudi, Torino 1961)

I Mari del sud apre l'opera poetica più importante di Cesare Pavese: Lavorare stanca, la cui prima edizione risale al 1936. Tuttavia, il testo va fatto risalire al 1931-32. È la rivista Solaria a pubblicarla nei suoi quaderni, ma la censura fascista interviene pesantemente sul testo che sarà edito per intero con le ulteriori aggiunte del poeta, solo nel 1943 dall'editore Einaudi. Il testo pavesiano fu censurato per i contenuti erotici di alcune liriche, ma forse pesava anche il fatto che Lavorare stanca era un'opera talmente originale e aliena dai cliché dominanti nella poesia di quegli anni, da suscitare quasi naturalmente qualche sospetto; al di là delle stesse intenzioni del suo autore. I mari del sud ci dà immediatamente la cifra stilistica di questo libro: epico e narrativo, dal ritmo incalzante, dalla metrica rigorosa. Massimo Mila, che oltre a essere un esimio musicologo, era un fine lettore di versi e amico del poeta, nota giustamente che il poemetto non è un punto di partenza bensì di arrivo, preceduto come fu da molti tentativi e testi che Pavese leggeva agli amici, - fra i quali Mila stesso, il professor Monti cui è dedicato e altri - e che poi puntualmente stracciava. Il poemetto ha una compattezza e una forza risolutiva che fanno pensare a un lento e lungo lavorio di cesello. Esso si inscrive a pieno titolo nella moderna tendenza del poema aperto, inaugurato da Eliot (che tuttavia Pavese non amava), ma mantiene un solido ancoraggio alla classicità, rifiutando il verso libero e rifacendosi invece a un metro latino: l'anapesto. Tuttavia, questo particolare non deve fare pensare a una classicità immobile e chiusa in se stessa. Ci sono alle spalle di quest'opera l'influenza del verso lungo di Gozzano e specialmente quella di Walt Whitman, amato quanto mai. L'originalità di Pavese sta proprio nell'avere ricorso a riferimenti diversi per allontanarsi dalla sonorità scontata dell'endecasillabo e aprirsi alle culture poetiche angloamericane, ed europee: i riferimenti a Baudelaire, per esempio, sono presenti sotto traccia, ma assai chiari. L'esito è un testo epico, ma lontano dall'epica fascista, retorica e ridicola; altrettanto distante lo è dai poeti che si raccoglievano intorno al Gabinetto Viesseux, a Firenze, fra cui Montale e l'esordiente Mario Luzi, oppure altri che convenzionalmente vengono posti sotto quel grande ombrello bucato che fu l'ermetismo. 
In che rapporto sta questo testo con l'insieme di Lavorare stanca? La relazione è complessa e contrassegnata da una certa discontinuità, anche se la sua presenza nell'opera non suona arbitraria; tuttavia, Mari del sud sta a sé, perché manca in esso quella dipendenza dal magico e dal mito che sono invece potentemente presenti nei testi successivi. Il viaggio e il richiamo alle terre lontane sono tipicamente moderni, come modernissima è l'esperienza dell'emigrazione italiana, sebbene il migrante esista dalle origini della storia umana. Nel prosieguo di Lavorare stanca, invece, il mondo contadino, ancora così vivo nella società italiana di quegli anni, con i suoi miti e le sue presenze salvifiche, inquietanti e ferine, rimanda a un universo arcaico e pre moderno. Poco più di trentanni dopo, quel mondo contadino rivivrà come memoria utopica nelle liriche in lingua friulana di Pasolini, che ne osservava da vicino il disfacimento, causato dall'ingresso imperioso dell'Italia nel neocapitalismo post bellico.

………….




VITTORIO SERENI
Da ‘Gli strumenti umani’, Einaudi, Torino, 1965

Una visita in fabbrica
I.

Lietamente nell’aria di settembre più sibilo che grido

lontanissima una sirena di fabbrica.

Non dunque tutte spente erano le sirene?

Volevano i padroni un tempo tutto muto

sui quartieri di pena:
ne hanno ora vanto della pubblica quiete.
Col silenzio che in breve va chiudendo questa calma mattina
prorompe in te tumultuando
quel fuoco di un dovere sul gioco interrotto,
la sirena che udivi da ragazzo
tra due ore di scuola. Riecheggia nell’ora di oggi

quel rigoglio ruggente dei pionieri:

—————————————————sul secolo giovane,

ingordo di futuro dentro il suono in ascesa

la guglia del loro ardimento…
ma è voce degli altri, operaia, nella fase calante

stravolta in un rancore che minaccia abbuiandosi,
di sordo malumore che s’inquieta ogni giorno

e ogni giorno è quietato – fino a quando?
O voce ora abolita, già divisa, o anima bilingue
tra vibrante avvenire e tempo dissipato

o spenta musica già torreggiante e triste.

Ma questa di ora, petulante e beffarda
è una sirena artigiana, d’officina con speranze:
stenta paghe e lavoro nei dintorni.
Nell’aria amara e vuota una larva del suono
delle sirene spente, non una voce più

ma in corti fremiti in onde sempre più lente
un aroma di mescole un sentore di sangue e fatica.

II.
La potenza di che inviti si cerchia
che lusinghe: di piste di campi di gioco
di molli prati di stillanti aiuole

e persino fiorirvi, cuore estivo, può superba la rosa.
Sfiora torrette, ora, passerelle

la visita da poco cominciata: s’imbuca in un fragore

come di sottoterra, che pure ha regola e centro
e qualcuno t’illustra. Che cos’è

un ciclo di lavorazione? Un cottimo
cos’è? Quel fragore. E le macchine, le trafile e calandre,
questi nomi per me presto di solo suono nel buio della mente,
rumore che si somma a rumore e presto spavento per me
straniero al grande moto e da questo agganciato.

Eccoli al loro posto quelli che sciamavano là fuori
qualche momento fa: che sai di loro

che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro …
chiusi in un ordine, compassati e svelti,
relegati a un filo di benessere

senza perdere un colpo – e su tutto implacabile

e ipnotico il ballo dei pezzi dall’una all’altra sala.

III.
Dove più dice i suoi anni la fabbrica,
di vite trascorse qui la brezza
è loquace per te?

————————-  Quello che precipitò

nel pozzo d’infortunio e di oblio:

quella che tra scali e depositi in sé accolse
e in sé crebbe il germe d’amore

e tra scali e depositi lo sperse:
l’altro che prematuro dileguò
nel fuoco dell’oppressore.
Lavorarono qui, qui penarono
(E oggi il tuo pianto sulla fossa comune).

IV.

«Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno

sanno quello che vogliono. Non è questo,
non è più questo il punto».

—————————————–E raffrontando e

rammentando:
————————«… la sacca era chiusa per sempre

e nessun moto di staffette, solo un coro

di rondini a distesa sulla scelta tra cattura

e morte …»

——————Ma qui, non è peggio? Accerchiati da gran tempo
e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non
più duramente (non occorre) si stringerà la morsa.

C’è vita, sembra, e animazione dentro

quest’altra sacca, uomini in grembiuli neri

che si passano plichi

uniformati al passo delle teleferiche
di trasporto giù in fabbrica.
——————————————Salta su

il più buono e il più inerme, cita:
E di me si spendea la miglior parte

tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati.
V.
La parte migliore? Non esiste. O è un senso
di sé sempre in regresso sul lavoro

o spento in esso, lieto dell’altrui pane

che solo a mente sveglia sa d’amaro.
Ecco. E si fa strada sul filo

cui si affida il tuo cuore, ti rigetta

alla città selvosa:

————————-- Chiamo da fuori porta.
Dimmi subito che mi pensi e ami.

Ti richiamo sul tardi -.

Ma beffarda e febbrile tuttavia

ad altro esorta la sirena artigiana.

Insiste che conta più della speranza l’ira

e più dell’ira la chiarezza,
fila per noi proverbi di pazienza

dell’occhiuta pazienza di addentrarsi

a fondo, sempre più a fondo

sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito
un grido troppo tempo in noi represso
dal fondo di questi asettici inferni.


La poesia compare nel 1961 sul numero 4 di “Menabò” di letteratura, la rivista diretta da Vittorini e Calvino. Entrerà a far parte della raccolta ‘Gli strumenti umani’ nel 1965. La poesia è quasi una poesia-testimone, un testimone che non verrà raccolto. Della fabbrica, del lavoro, parlerà la narrativa, non la poesia. Questa poesia segnala l’abbandono definitivo da parte del poeta degli stilemi ermetici nonché quella scrittura delle prime due raccolte ancora “aristocraticamente selettiva” di cui parla Isella. Qui il linguaggio si è fatto ormai diaristico e colloquiale, molto più prossimo alla prosa e al parlato, come una necessità interna a quel dialogo dell’io con la Storia perseguito dal poeta. Succede così che l’inquietudine esistenziale dovuta al mancato incontro con la Resistenza diventi in questi versi tutt’uno con lo scacco di un’umanità intrappolata dentro le ingiustizie, la disumanizzazione, i ritmi alienanti della fabbrica all'interno del capitalismo e del mondo industriale e tecnologico. Come rileva Luzi non si tratta, come qualcuno vorrebbe, dell’irrompere dell’ideologia. Le ‘idee’ non prevaricano le immagini del mondo. Né ‘l’incertezza angosciosa’ quasi di ogni parola di cui parla Fortini ha per sbocco il nichilismo impotente. Se mai questi versi indicano il conflitto come unica apertura alla speranza per uscire da ‘questi asettici inferni’.

……………


DEREK WALCOTT.
Da ‘Omeros’, traduzione e cura di Andrea Molesini, Adelphi editore, Milano 1999.


Libro terzo capitolo XXVIII.
Now he heard the griot muttering his prophetic song
of sorrow that would be the past. It was a note, long-drawn
and endless in its winding like the brown river's tongue:

“We were the colour of shadows when we came down
with tingling leg-irons to join the chains of the sea,
for the silver coins multiplying on the sold horizon,

and these shadows are reprinted now on the white sand
of antipodal coasts, your ashen ancestors
from the Bight of Benin, from the margins of Guinea.

There were seeds in our stomachs, in the cracking pods
of our skulls on the scotching decks, the tubers
withered in no time. We watched as the river-gods

changed from snakes into currents. When inspected,
our eyes showed dried fronds in their brown ireses,
and from our curved spines, the rib-cages radiated

like fronds on a palm beach. Then, when the dead
palms were heaved overside, the ribbed corpses
floated, riding, to the white sand they remembered,

to the Bight of Benin, to the margin of Guinea.
So, when you see burnt branches riding the swell,
trying to reclaim the surf through crooked fingers,

after a night of rough wind by some stone-white hotel,
past the white triangular passage of the windowsurfers,
remember us to the black waiter bringing the bill.”

But they crossed, they survived. There is the epical splendour.
Multiply the rain's lances, multiply their ruin,
the grace born from subtracition as the hold's iron door

rolled over their eyes like pots left out in the rain,
and the bolt rammed home its echo, the way that thunder-
claps perpetuate their reverberation.

So there went the Ashanti one way, the Mandingo another,
the Ibo another, the Guinea. Now each man was a nation
in himself, without mother, father, brother.


Libro terzo: capitolo XXVIII.
Ora udiva l'aedo mormorare il suo canto profetico,
grave del dolore del passato. Era una nota prolungata
e senza fine, che serpeggia come la lingua del fiume scuro:

“Eravamo del color delle ombre quando scendevamo
tintinnanti di ceppi per congiungerci alle catene del mare,
le monete d'argento si moltiplicavano all'orizzonte venduto,

e queste ombre sono ristampate ora sulla sabbia bianca
delle coste agli antipodi, i tuoi antenati di cenere
che venivano dal Golfo di Benin, dove finisce la Guinea.


C'erano sementi nel nostro stomaco, negli incrinati baccelli
del nostro cranio, sopra i ponti brucianti, i tuberi
avvizziti in un lampo. Guardammo gli dei del fiume

da serpenti trasformarsi in correnti. Da vicino
i nostri occhi mostravano fronde secche nelle iridi brune,
e dalla spina dorsale ricurva la cassa toracica s'irradiava

come fronde da un ramo di palma. Poi, quando le palme
morte oscillavano fuoribordo, i cadaveri dalle costole scoperte
fluttuavamo, navigando verso la sabbia bianca e che ricordavano,

fino al Golfo di Benin, dove finisce la Guinea.
Così, quando verdi rami bruciati che solcano la corrente,
cercando di trattenere la risacca tra le dita piegate,

dopo una notte di vento forte in un hotel di pietra bianca,
oltre la scia della bianca vela triangolare dei surfisti,
ricordaci al cameriere negro che porta il conto.”

Ma fecero la traversata, sopravvissero. È questa la gloria dell'epica.
Moltiplica le lance della pioggia, moltiplica la loro rovina,
la grazia nata dalla sottrazione mentre la porta di ferro della stiva

si riempiva ai loro occhi come coppe lasciate sotto la pioggia,
e il catenaccio tamburellava la sua eco, come fa il tuono
quando applaudendo perpetua il proprio riverbero.

Così gli Ashanti presero una strada, i Mandingo un'altra,
gli Ibo un'altra ancora, e così quelli della Guinea. Ogni uomo
era ora una nazione, senza madre, padre, fratello. 

'Omeros' è l'opera di Derek Walcott che gli ha dato più di altri libri notorietà mondiale, a prescindere in parte dalla stessa attribuzione del Premio Nobel nel 1992. Nel risvolto di copertina dell'edizione italiana di Adelphi, il curatore scrive: “Molti hanno detto, senza tema di smentita, che i nostri tempi non sono adatti alla forma del poema epico. Poi un giorno è arrivato Derek Walcott...” La frase è molto azzeccata, ma anche imprecisa. Il poema epico gode di buona salute in tutto il mondo e bastano alcuni nomi a certificarlo, limitandoci per il momento ai più noti: Seamus Heaney, Les Murray, Mahmud Darwish, Adonis, Yang Lian. Dunque, è da noi in Italia che non ci si accorge di questo, sebbene qualcosa stia cambiando anche qui e ne daremo conto in una rubrica successiva.
Tornando a Walcott, il suo poema maggiore, scritto in terzine e con un metro che l'autore stesso definisce “roughly exametrical” e cioè “approssimativamente” in esametri, è un omaggio a Dante, mentre quello a Omero è più che evocato dal titolo dell'opera. Va detto subito che, mentre le affinità con il secondo sono forti e visibili anche nella trama esteriore del poema, il riferimento dantesco si limita all'uso della terzina. Il viaggio di Walcott è nella natura sontuosa dei Caraibi, nella storia tragica della colonizzazione e in quella della civiltà poetica europea. Questo terzo elemento fa del libro anche un originale poema metaletterario. Il paradosso in cui il poeta vive, infatti, è duplice: una natura incontaminata e senza storia da un lato e una civiltà delle lettere che sta nella sua gran parte nei libri dei colonizzatori. L'isola di St. Lucia è una specie di goccia di terra, un orecchino in mezzo al mare: non uno stato, ma un'entità geografica. Walcott rappresenta più volte nei suoi poemi questa situazione, come avviene anche nei tre versi finali del capitolo XXVIII del terzo libro riportato più sopra. L'ambivalenza in cui il poeta si trova ristretto, diviene la sua forza. Walcott risolve la contraddizione in una grande sublimazione che gli permette di tenersi lontano dalle insidie, da lui sempre rifiutate, del ‘nero è bello’. Il verso maestoso del poeta caraibico non indulge alla retorica, ma dipinge con i colori di quella natura abbacinante un affresco a più dimensioni: in primo piano il teatro omerico, con le sue Elene e i suoi Achilli, in piano medio la storia della schiavitù, sullo sfondo la poesia, che attingendo alle fonti antiche, costruisce un poema che sa andare oltre la modernità senza essere postmoderno. Lo definirei il primo grande poema della globalizzazione intesa in modo positivo, cioè come capacità delle culture di tradursi e di parlarsi.