martedì 22 novembre 2016

Colti e Semicolti



COLTI e SEMICOLTI.

di Franco Romanò

Rispondo sia a Ennio Abate sia a Paolo Rabissi, contento prima di tutto che il dibattito decolli. Ad Abate, come premessa e prima di affrontare le due argomentazioni forti del suo scritto, dico che la mia contrapposizione fra le due tradizioni letterarie italiane (ma ce ne sono più di due) era poco più di una ritorsione retorica e polemica a certe argomentazioni comparse qui e là su giornali e in rete, di cui normalmente non mi occupo ma che in questo caso mi sembrava utile riprendere. Le tradizioni, comunque, hanno la loro importanza, sebbene quello che è più interessante per me è proprio dove esse s’incontrano e si scambiano registri e sollecitazioni. C’è un Dante espressionista ante litteram che ha influenzato assai Pietro Aretino e anche il ‘900, per esempio, anche se rimangono distinte le loro appartenenze. Fra l’altro, proprio la modernità è stata il terreno su cui colto e popolare, folklore e cultura alta si sono mescolate. In questa contaminazione si fa strada quello che entrambi avete chiamata un’area semicolta che è anche per me quella cui bisogna guardare, sia per appartenenza, sia perché mi domando dove sia quella colta colta.
La cultura di massa, proprio per la sua inevitabile natura pervasiva e anche divulgativa, ha avuto come effetto e contraltare di lungo periodo l’aumento dell’ignoranza relativa degli intellettuali che può assumere sia le forme della tuttologia (in questo senso le recenti performance di Recalcati un po’ ovunque sono un esempio tragicamente esilarante), oppure quella della superficialità da rotocalco. Un‘affermazione come: “In fondo Fo era solo un attore” dimenticandosi che un attore e capocomico era pure un certo William Shakespeare, è affermazione colta, semicolta o che cosa? In altre parole i Grandi Intellettuali di cui parlava Gramsci nei Quaderni e che potremmo accogliere come un altro modo di nominare la cultura più colta o alta, non esistono forse più o sono un retaggio di tipo squisitamente umanistico e non nel senso migliore del termine; nel caso delle scienze, poi, contano le èquipe, sia che appartengano alla cosiddetta Big Science sia che no.   
Fatta questa premessa vengo ai due argomenti forti di Abate quando afferma:    
     Non vedo, cioè,  né in Fo né in Dylan «la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo  recupera e usa nel suo teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht;  e Dylan valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Parto dal merito e da Fo. Come Paolo Rabissi, ritengo che Mistero Buffo, la dissacrazione dei Vangeli e l’uso che fa degli Apocrifi, nel contesto culturale italiano, siano fortemente emancipatori. Inoltre, l’invenzione del  gramlot, questa lingua popolare, maccherònica, capace di mescolare arcaismi e dialetti, alla fine diventa una meta lingua teatrale di grande efficacia che può valere anche per contesti che vadano oltre il mondo contadino di cui parla Abate. A questo aggiungerei la sua capacità di fare incursioni nella storia (Joan Padan alla descoverta delle Americhe) e, ancor più, la capacità di aggredire in presa diretta certi eventi politici e trasformarli teatralmente: Morte accidentale di un anarchico. Mi convince di meno nei suoi monologhi su Agostino piuttosto che Caravaggio e altri. Non mancano nella sua opera, anche brevi ma efficaci incursioni nel mondo operaio anche se in questo caso il merito, sia nella scrittura dei testi, sia nella recitazione è di Franca Rame: mi riferisco ai monologhi e ai dialoghi di Parliamo di donne, anche se concordo sulla sua relativa lontananza dal mondo e dalla società industriale. Non credo, tuttavia, che gli fosse estraneo Brecht, penso piuttosto che la sua coerente adesione alla Commedia dell’Arte lo portasse a dare minore importanza ad altri elementi.
Il caso Dylan è del tutto diverso. Egli è certamente un intellettuale della musica, ma non credo vada molto oltre questo; tuttavia nei suoi testi ha avuto una capacità straordinaria di abbracciare molti mondi e attraversarli in presa diretta. Per quanto io sia molto spesso critico nei confronti dell’americanismo deteriore e modaiolo, bisogna anche stare attenti a non peccare di eurocentrismo: Gramsci, che io metto al vertice, Benjamin e Adorno sono certamente importanti per il nostro pensiero critico, facendo anche qualche distinguo, ma credo che siano poco rilevanti (se non il primo, ma maggiormente in America latina) nel contesto americano.
L’argomento finale di Abate e cioè la necessità di tenere conto della critica della cultura di massa lo condivido in pieno e quindi se ho dato nel mio scritto la sensazione di contrapporre cultura popolare e semicolta a cultura alta, correggo subito il tiro perché non è quello che penso. Condivido anche quello che Abate afferma nel commento ulteriore pubblicato quando si richiama anche alla sua esperienza di laboratorio Moltinpoesia. Partendo quindi dalla concordanza con quanto affermato, mi pongo se mai un interrogativo: come farlo in modo positivo in questo tempo di post modernismo dilagante? Quanto e in che cosa ci possono aiutare ancora Gramsci e gli autori citati anche da Abate nel farlo? Secondo me c’è una sola strada: guardare dappertutto ed entrare nel merito. La prima espressione va presa alla lettera, ma dentro una distinzione rispetto al post modernismo. Quest’ultimo non riconosce più alcuna differenza fra alto e basso, popolare e colto perché omologa tutto eliminando la categoria del giudizio critico. Guardare dappertutto non significa dunque che tutto è uguale a tutto, ma essere consapevoli che il valore di emancipazione di un‘opera o di un autore possono vivere in alto in basso e nel mezzo, per cui può anche capitare che persino lo Strega riesca a premiare un libro importante e bello come La scuola cattolica di Edoardo Albinati. Entrare nel merito, assumere la categoria del giudizio come responsabilità imprescindibile senza timori reverenziali e partendo sì dalla propria appartenenza di area, ma nel rifiuto delle gerarchie che, del resto, non si sa più da chi stabilite. Io penso che in questi anni alcuni di noi compreso Ennio Abate lo hanno fatto e lo stanno facendo, per cercare di uscire da quello che è per me l’aspetto più negativo del post modernismo (che io vedo proprio come raddoppiamento ideologico della fase neoliberista che stiamo vivendo) e cioè il suo indifferentismo e la sua falsa democraticità.          

lunedì 14 novembre 2016

Ennio Abate risponde sul Nobel a Bob Dylan

Caro Paolo, 
rispondo brevemente e schematicamente alla tua sollecitazione. Ho seguito tiepidamente la discussione sui giornali analizzata invece in modo abbastanza appassionato da Romanò. Non per snobismo, ma perché, pur riconoscendo lo «strappo» dell’Accademia svedese prima con Fo e ora con Dylan o sorridendo per il «livido silenzio di poeti, narratori e critici dell’establishment» o le loro «reazioni scomposte», a me pare che  la questione non stia nel  conflitto gerarchico tra generi (letteratura/teatro nel caso di Fo; poesia/canzone nel caso di Dylan). Secondo me, Romanò  prende troppo sul serio  questo conflitto (che per me è di superficie) e allo snobismo arrogante dei sedicenti  difensori della Letteratura o della Poesia contrappone l’altra tradizione o l’altro canone: quello di Aretino, Ruzante, la commedia dell’Arte, Goldoni, per dire che anch’essi essi « fanno parte della letteratura italiana» a pieno titolo, come Dante, Petrarca, etc. Come Fo ai nostri giorni. Oppure cerca di trovare quarti di nobiltà  per Dylan risalendo all’«epoca classica arcaica» quando « la poesia era sempre accompagnata dalla musica»;  o ricordando  che – dopotutto - « Dylan ha scritto anche poesie vere e proprie, cioè testi che non erano destinati a essere musicati ma a rimanere tali».  
Io  forse mi attardo solitario  ancora su  posizioni di ascendenza marxista e fortiniana, ma, indipendentemente dai generi (e quindi dalla loro apparente neutralità e  anche dalle gerarchie che persistono e vengono difese in certi ambienti accademici conservatori ed elitari), porrei un’altra (superata?)  questione: il valore critico verso la cultura oggi dominante (che si serve sempre – ricordiamocelo -  sia delle forme elitarie che di quelle di massa o ex-popolari) o il valore emancipativo di un’opera da quale autore viene oggi raggiunto? 
Se riteniamo che tale valore sia oggi rappresentato dall’opera di Fo o di Dylan, bene, li si premi. A me non scandalizza affatto che quel valore possa essere espresso nel genere del teatro o in quello della canzone (o della poesia/canzone). Questo valore mi preme accertare. Non mi importa se viene espresso nella forma artistica a cui io sono più addestrato o che per formazione padroneggio di più. 
A questo punto, però, devo dire le mie attuali  riserve – correggibili con un’analisi più approfondita, ammesso che trovassi il tempo per farla - nei confronti sia dell’opera di Fo, che conosco un po’, e  sia dell’opera di Dylan, di cui so pochissimo. Se il valore critico ed emancipativo dell’opera di Sartre mi era evidente, non altrettanto – sottolineo: questo vale soltanto per me -  lo è nel caso di Fo e Dylan. 
A me è sempre parso che il teatro di Fo recuperasse una tradizione popolare ma di un mondo arcaico e contadino, ma che il suo teatro non riuscisse  ad “attualizzarla” e a fare i conti con i rapporti di potere che contraddistinguono le società industriali (e ora  post-industriali). Le quali hanno demolito il popolo e l’hanno sostituito con le masse. Varrebbe per Fo la critica che Asor Rosa a suo tempo fece con «Scrittori e popolo» a certa letteratura. O quella che mosse Fortini al Pasolini invaghito del “popolo” delle borgate romane.  Quanto a Dylan, nella mia ignoranza, potrei anche ammettere, con Romanò, che interpreti « lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi». A patto però che sia chiaro una cosa: si tratta dello “spirito della società di massa”.  Non vedo, cioè,  né in Fo né in Dylan «la commistione fra popolare e colto» che tanto infastidirebbe i loro denigratori, che si sentono sacerdoti della Letteratura o della Poesia. Perché non li vedo *colti* ma semicolti. Mi spiego: Fo  recupera e usa nel suo teatro un tradizionale immaginario popolare letterario ma non ha mai mostrato di possedere la cultura industriale e marxista di un Brecht;  e Dylan valorizza la cultura di massa del tutto estraneo (e credo ignaro o indifferente) alla critica che ne fecero Benjamin e Adorno.
Un caro saluto
 Ennio

Paolo Rabissi
Ti rispondo con qualche osservazione, Romanò, al quale ho inoltrato le tue note, ti risponde a breve, probabilmente direttamente nel blog.

 1) Valgano ‘solo per me’ anche le mie note, anche se forse ho qualche conoscenza in più dei due in questione. Entrambi per me hanno rappresentato con la loro opera migliore un valore di critica verso la cultura dominante (cioè in definitiva emancipativa). Senza scendere in particolari, rammento solo per Fo la dissacrazione dei Vangeli in un’Italia clericale e fascista e per Dylan la raffigurazione del salariato precario (Maggie’s farm). Per me sono stati ‘conti’ fatti con i poteri dominanti e la loro cultura predatoria, sul versante del mondo più contadino per Fo, su quello fordista per Dylan.

2) Sì, siamo sul versante della cultura di massa, cioè dei semicolti tra i quali mi ci metto perché questa è la mia origine e nonostante le tentazioni non sono mai diventato tuttocolto.
Voglio dire che la cultura di massa ha in sé abiezioni. Ma ne ha anche quella colta. Ognuno parli dal versante che gli è proprio. Chi s’interroga tra i colti è per me degno dello stesso rispetto di chi lo fa da semicolto. Ma se ogni tanto si premiano quest’ultimi il senso anche per me è quello di una resistenza, di una opposizione alle abiezioni invadenti della cultura di massa, di cui fanno parte quei sacerdoti esaltatori della cultura colta che hanno dimenticato le proprie origini e contro i quali Romanò dice cose sin troppo tiepide: sono loro che inquinano la cultura di massa che va aiutata a esprimersi in maniera semicolta, non cortigiana, un po’ bastarda poco adatta ai salotti e alle antologie.


Va da sé che se hai tempo e voglia tue repliche ci stanno benissimo.