venerdì 26 febbraio 2016

Paolo Borzi commenta Alessandra Paganardi





Paolo Borzi, che di epica nuova s'intende parecchio (rammento qui gli ultimi due suoi libri: Le tavole della leggenda. I sogni e le ragioni d'una intramontabile epopea cavalleresca, AltrEdizioni, e La materia di Britannia in ottave libere e incatenate, Nuovi Fermenti) è già intervenuto su queste pagine e il suo ultimo commento generale sull'epica del maggio 2015 è segnalato nella colonna a destra: oggi lo ringraziamo per la sua lettura dei versi di Alessandra Paganardi precedentemente pubblicati:

Usando come “bugiardino” il mio stesso saggio pubblicato qui,  posso intanto definire “epico” questo poemetto d’Alessandra per la “doppia formazione” che impone, personale e collettiva: una sincronicità esemplare fra due adolescenze, una personale che assegna a una Incognita immensa la trasformazione della protagonista in persona adulta; una della Modernità che “rincula all’indietro” dentro  una infanzia caricaturale, in un “paese dei tarocchi” che promette sempre di tornare alle icone consumistiche degli anni 60, perché altri modelli non riesce a sfornare, almeno fino a una mercificazione-mediatizzazione talmente brutali da affondare in un baratro la stessa dialettica “individuo-società-storia” (almeno per come fummo abituati a pensarla-concepirla), pur occupandosi molto di storielle e socializzazioni  “on line”.

L’utopia qui è una (auto)Formazione Diversa, contro quasi tutto e tutti… sperando di non restare completamente “azzerati” dalla moviola, nei nostri stentati ma resistenti passi. Ma, volendomi limitare…, di “epico” questi passaggi hanno anche una certa “perentorietà senza declamazione”: essere  perentori volendo restare scettici avvicina molto a quella “svagatezza imperiosa” che caratterizza l’Epica buona,  divina e umanissima, ideologica e creaturale, filosofica ed emozionale.

“Era questo…. Con la moviola dietro che ci azzera”: l’inizio e la fine ci dicono bene tale aspetto: QUESTO ci è successo; QUESTO ci sta succedendo…. Ed è in fondo un decisivo ulteriore succo dell’Epica: ciò avvenne, perché ci sta capitando a tutti.

Brava Alessandra!
Paolo Borzi

venerdì 12 febbraio 2016

Alessandra Paganardi ospite di diepicanuova con due suoi testi, uno inedito.


12/02/16 5.04 pm


Millenoventosettantotto, di Alessandra Paganardi, è un poemetto che fu pubblicato nella più ampia raccolta dal titolo Tempo reale, nel 2007, per le edizioni Joker, con introduzione di Mauro Ferrari. Riletto dall'autrice nel ciclo Poesia e storia organizzato due anni fa alla Liberia Franco Angeli alla Bicocca di Milano, lo riproponiamo oggi nel blog insieme ad un breve intervento critico e un testo inedito.

La poesia di Paganardi ha un fondo elegiaco che sembrerebbe lontano da un ingaggio con la storia, ma in questo poemetto e anche in altri testi più brevi, nelle diverse raccolte, accade che lo sguardo e l'attenzione puntino diritti a quegli eventi che, o perché nascosti nelle pieghe del quotidiano, oppure – come in questo caso – perché tanto enormi da romperne la continuità, s'impongono perentoriamente all'attenzione del dettato poetico.
In Millenovecentosettantotto, la forza del testo sta in un doppio movimento. Da un lato chi scrive è una donna che ha metabolizzato i vissuti, affinato il proprio linguaggio poetico, fatto come tutti i suoi conti più o meno aperti con la storia, dall'altro però, il punto di vista del testo è quello della giovane ragazza appena adolescente che in un'aula di liceo e o forse ancora di ginnasio, si trova addosso un evento politico e sociale di quella portata. Proprio nella capacità di identificazione con quella immagine di giovane donna che non è solo personale ma generazionale, e poi di distacco e riflessione, si muovono le stanze del poemetto.
La brevità dei testi è un altro elemento che rende nitide e concluse le immagini. Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro diventano così il prisma attraverso il quale andare ancora più indietro nel tempo, per esempio agli anni del boom economico (la sesta stanza) per poi tornare al presente di adolescente, infine alla riflessione. L'immagine finale del re persiano che guarda i suoi uomini è il suggello di un percorso originale dentro la storia che abbiamo ritenuto un esempio di quello che in questo blog abbiamo indicato come epica nuova.


 Millenovecentosettantotto

Era questo: un accordo
d’allegria improvvisa
le palme in passerella sulla sabbia
e quella torre azzurra, così
malsicura. Era questo acchiappare
la bellezza più in basso, a mosca cieca,
dal solco impertinente fra le labbra
e le narici. Non si domandava
sconto né resto
la sorgente scorreva senza brocca
il saldo dell’estate era nell’aria.
La storia arriva sempre dopo
all’inizio è un sommario anticipato –
un salto, un sole, un caso.
 





Poi ci fu il vento che gonfiava il seno
alle ragazze, volo in mongolfiera -
una corsa sul tram diritti e soli.
Ridere dalle labbra, non dagli occhi
nel prendere ciascuno la sua parte -
una parte non sua, diritti e soli.






Il corridoio sì, il corridoio
era il sasso sospeso, l’avamposto
di una guerra finita.
Già marzo, non ancora primavera
quattro ammazzati, presto morto il quinto,
stringersi giù in palestra appesi ai quadri
prendersi tempo per una domanda
tempo per la paura. Comprendemmo
allora il fuori posto e il fuori fase -
sapevamo di aver trovato un mondo
sognato già da troppi, non più nostro.






Il mare nel paese dei balocchi
le sdraio in fila come in un concerto
la sabbia che sembrava comperata.
Il giovane dal nome un po’ romano
portava le bevande ai tavolini.
Tutto dolce e salato, anche il mare
sfuggito da non molto a quella foce
con le viscere là, proprio là dove
mettevamo in valigia le nostre
vocali aperte, le consonanti in fuga
i nostri mah, l’orgoglio della fretta
la città che sorride troppo o niente.






La storia, poi, si ritirava tutta
dentro quelle colline. L’estate
era aspettare in compagnia dei libri
scrivere lettere senza rumore.
Il confine sembrava più distante
le lancette correvano all’indietro
allo specchio tornava esatta l’ora.






Ci dicevano: sarà tutto migliore
tutto più grande e più lucente, una città
sospesa fra le luci di Natale
sarà un altro miracolo, televisori
accesi col pensiero in ogni stanza
donne sempre più belle con l’età
corpi di cera lucidati a lacca
bambini bravi che ridono sempre -
ricordavamo di non aver visto
il miracolo di vent’anni prima
un faro acceso e spento in bianco e nero
una guerra guarita. Ponti tibetani
tesi fra due miracoli, sorpresi
dalla paura di essere normali.






 Sentivamo che tutto andava in fretta
più in fretta delle sere di novembre –
rapacità sognata dall’inizio
del secolo, fame verde dell’istante,
la mietitura prima della semina
la terra da rapire dentro un punto.
Qualcuno si sentiva più sicuro
come un auriga su cavalli alati
altri fuggivano con il pensiero
alle giostre impazzite, al capogiro
dei colori danzanti nella testa.
In altri rinasceva nostalgia
quasi segreta di un prima e di un dopo
una sorpresa, un fiore da aspettare –
un desiderio da non rivelare.






Era un tempo residuo, che non sai
se sia il tramonto o l’alba, che scommetti
rimpianto nell’attesa. Lo vedevi da certi
volti di vecchi mai più visti, facce
di vera lunga vita - come il legno
o come il mare. Il secolo cresceva
la clessidra della millesima notte
appesantiva i suoi fianchi di sposa.
La grandine, però, su quella piazza
dopo la festa grande dei coscritti
faceva ancora paura, un salotto
strano, come fuori dalla chiesa
capisci che si aspetta un funerale
o che è arrivata la messa di maggio.






Si ritornava al volo appesantito
della poiana sul tetto, al risveglio
cucito al giorno – quello che non puoi
sognare più, destarti non ancora
ma non ti puoi fermare, non ti puoi
dimenticare che la mappa del mondo
è diventata un foglio da strappare
o da rifare in copia. Allora cerchi
la calma di un cortile verso l’alba
dove c’è sempre una finestra accesa
-       la seconda è la tua, devi imparare
per raggiungerla il volo orizzontale.






Si può imparare il gesto della foglia
che si piega, il remo pronto all’acqua
la radice precisa. Si può fare
finta di aver capito quanto basta
anche se in fondo non si sa mai bene
ciò che basta capire. Si può dire
di più o di meno, portare pazienza
vedere ciò che manca. Puoi imparare
il mondo intero e rimanere fermo.
E poi non è mai detto, oppure forse
si dice sempre ed è tutto diverso –
oggi e ieri due treni svelti in corsa
in direzioni contrarie, domani
il binario che resta e che sospinge.






Si dirà quando l’ultimo orologio
sarà fermo, un souvenir di viaggio
dimenticato su una brutta mensola –
lo sapeva il Gran Re dalla collina
pensando ai suoi bellissimi soldati
cent’anni dopo. Sapeva e piangeva
quel re, non di dolore ma di storia
piangeva la partenza dalla fine
e l’arrivo in eterno rimandato –
correre sempre avanti come in sogno
con la moviola dietro che ci azzera.


                                                                                            Alessandra Paganardi


 22 NOVEMBRE 1963
Non esser nata in un giorno qualunque
io lo compresi già alle elementari:
il giornale con le lettere grandi
spegneva tutti gli anni le candele
sulla foto di un grande funerale
al di là dell'oceano. I primi tempi
non capivo, chiedevo come mai
così mesta per me fosse la festa.
Ma tutti i compleanni sono esequie
è lì che muore la nostra non vita -
da allora non potremo più restare
nel gran sogno di non essere ancora.
Caro mi fu quel nascere d'autunno
e a capire ogni anno sempre meglio
che la vita ha la sua gemella scura
servì spegnere la candelina zero
sulla tua gola esplosa, JFK.
                                       
                                                Alessandra Paganardi, inedito