Di Franco Romanò
L’ultima
volta che mi capitò di assistere a una conferenza di Philippe Daverio, fu all’Ambasciata
italiana di Berlino, che ospitava insieme a lui l’artista Giorgio Milani.
L’occasione era solenne: l’anniversario del rogo dei libri, il 9 maggio del
1933. I due ospiti italiani erano stati invitati dai tedeschi. Daverio, nel suo
primo intervento, rimase nei binari di una presentazione che doveva trasmettere
un messaggio culturale e politico basato su tre cardini: i roghi di libri sono
sempre esistiti, la collaborazione fra Italia e Germania è un caposaldo dell’Unione
Europea, la memoria storica è un fattore decisivo. Nella replica finale,
seguita a inutili domande rituali e a qualche altro intervento formale, Daverio
alzò lo stile della comunicazione e i suoi contenuti. Mettendo alcuni opportuni
accenti sull’opera di Milani, che forse erano sfuggiti ai più, criticò il culto
agiografico della memoria, sottolineando la duplicità della grande arte, che,
nel dare una forma espressiva alle opere, finisce per abbellire anche l’orrore.
Il sottinteso era che Milani si collocava altrove. Infatti i suoi poetari e in particolare tre di loro e
cioè Poetario
di fine Gutemberg, la
torre di Gutemberg e Jesus poetaro crocefisso di fine millennio,
sono sculture costruite con vecchie
lettere di legno che, inchiostrate, servivano poi alla stampa. Opere scabre,
con le quali Milani conserva il calco, l’impronta, non tanto il libro in sé,
visto che l’epoca in cui siamo è post gutemberghiana e inflazionistica per il
numero di troppi libri inutili che giacciono nei magazzini delle case editrici:
quella di Milani, invece, è la conservazione di una matrice dall’inflazione del
culto della memoria. Quella presentazione e anche la scelta di Milani, artista
assai noto in Germania, mi sembrava incarnare molto bene la capacità di Daverio
di avere sempre uno sguardo laterale, un pensiero decentrato. Questa particolarità
gli veniva dall’essere un uomo del ’68, che possedeva già in quegli anni, tutta
la vastità di una cultura borghese ereditata dalla famiglia e dal suo milieu
sociale, cultura cui non rinunciava - e
quanto piacevole era fin da allora discutere con lui – ma di cui conosceva anche
i limiti. La critica di massa sessantottina gli permise, non di rinnegare, ma
di guardare a quel patrimonio in modo diverso, setacciandolo. È quello che ha
fatto nelle sue trasmissioni – Passepartout
prima di tutto – ma anche in altre conferenze più politiche: ne ricordo una
sulla Cina, forse reperibile nell’archivio rai, quando nessuno capiva quale
ruolo avrebbe avuto nel giro di pochi anni. Il suo non è mai stato uno sguardo specialistico
da storico dell’arte, che cataloga e conserva, quanto piuttosto da
intellettuale di massa di tipo nuovo, che sapeva scegliere e mettere in evidenza,
spesso con ironia e leggerezza, mai in senso storicistico e tale atteggiamento
chiama in causa ancora una volta la critica al culto memoriale astratto, anch’esso
inflazionato e sempre più controproducente. Anche per questo, certi paragoni a
ridosso della sua scomparsa mi sono sembrati paradossali, specialmente quando
pensavano di rimproverargli quello che non ha mai voluto essere. Personaggi
come Federico Zeri o Carlo Giulio Argan appartengono a un altro mondo della
critica d’arte, precedente, un mondo però che ha fatto in fin dei conti della
separatezza dalla cultura di massa la propria cifra. Si tratta di una scelta
più che legittima, ma molto accademica e iper specialistica. Daverio si è mosso
a valle di una critica di massa della cultura che richiedeva capacità
trasversali, approccio da competenze disciplinari diverse, saper collegare
fenomeni fra loro apparentemente lontani, ma anche l’ironica propensione a
ridimensionare apparenti autorevolezze. Tutto questo, in definitiva, appartiene
al meglio della cultura del ’68.
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