La
Materia di Britannia
poema epico di Paolo
Borzi
Pubblichiamo oggi, con una breve nota introduttiva dell’autore
medesimo, due parti del suo poema in ottava rima, La materia di Britannia, e un brano con accentuati tratti danteschi facente parte dello stesso poema, come un esempio
possibile di ciò che intendiamo per epica nuova. Con quest’opera, Paolo Borzi
risale infatti a una delle fonti della narrativa e della poesia occidentali in
epoca cristiana: il ciclo bretone. La materia squisitamente epica viene
ripercorsa e riproposta come grande metafora del nostro tempo. Il testo,
tuttavia, è anche un viaggio nella tradizione colta e popolare della lingua
italiana e nei suoi stili, nella convinzione che un poeta o uno scrittore hanno
a disposizione l’intero patrimonio linguistico di una civiltà, sia da un punto
di visto sincronico sia diacronico (f.r.)
Propongo ai cari amici di
Epicanuova 16 (più un extra iper dantesco) delle 453 ottave del mio poema epico
sul Ciclo Bretone. In ogni mio libro ho sempre proposto un’Epica diversa, in
prosa e-o versi. Ma inserire un poema cavalleresco in ottave nell’Epica Nuova è
una sfida quanto mai stimolante e scabrosa; anche per questo ho proposto di
connotare al plurale (Epiche Nuove) il filone neo epico che staremmo tutti
insieme promuovendo: per poter
inserire-tra le altre-questa scandalosa modalità, senza che la decisa aderenza
alla Tradizione la possa mettere in una posizione esemplare, o al contrario
insostenibile. Una valenza esemplificativa, può nondimeno essere fornita per
elaborati anche sostanzialmente diversi, che vogliano comunque adottare schemi simili
(stanze, assonanze etc.), ma con maggiore libertà: un “format-seme” per
sviluppi anche, magari solo in apparenza, radicalmente difformi.
La scrittura si propone di
rendere tutte le suggestioni storiche, allegoriche, psicologiche e psicagogiche
di questo materiale tradizionale, che proprio nella “connivenza” di queste
motivazioni sfonda a mio avviso il muro del tempo. La versificazione, chiusa
anch’essa in misure e stanze tradizionali, rinuncia però a ogni patina di
anticaglia, ivi comprese le tronche funzionali alla metrica; e quasi inverte la
proporzione tra endecasillabi compiuti o con enjambement. Il criterio di
massima è infatti quello di mettere la rima ogni 11 sillabe, quasi prescindendo
dalle chiusure di senso. La presenza di una chiusura, però, vorrebbe rendersi
assai preziosa quando si adottasse la
“perentorietà” di certa epica classica, che va certo filtrata da un sentire
diverso, ma recuperata quando necessario.
L’Epica, vecchia o nuova che sia, non può
rinunciare a una visione ideologica: in queste sole quattro ottave le cose
impellenti da dimostrare, o meglio, mostrare, sono 3: Il Ciclo Bretone si pone,
nella sua essenza, come “quinto vangelo”; il Ciclo Bretone si pone come
“Odissea ulteriore”; il Ciclo Bretone parla di noi moderni a noi moderni.
L’autore non intende discutere questo, è comunque la sua scelta, al punto che
“si sbriga” a dirlo con poco: è un’altra sfida, quella d’una poesia narrativa
che dice tanto con pochissimo, perché la qualità del distillato è determinata
dalla natura e dalla mole del distillando.
Un accenno sulle assonanze: esse
sono rarissime, incidentali e facilmente rimuovibili. Sono state lasciate,
entro certi limiti, per “onorare” la natura abbastanza rapida e fluviale di questa
composizione, articolata però su una griglia strutturata da decenni di studio e
di ascolto del canto a braccio.
Dalla Tavola di Merlino
53
Si canta qui in ottave del
profeta
che mise in viaggio Ulisse, non
per Sale,
ma per gli abissi interni del pianeta.
Del remo fece Spada inflitta al
Male,
estratta poi da un sasso fatto
creta
da un Perdente invincibile: un
regale
discepolo, sottratto a cure
urbane
per farne il Re delle leggende
umane.
54
Rimase al sasso quella feritoia
che compensò la Breccia nel Costato
e l’ astuta perfidia armata a
Troia,
perché l’ ingegno umano, nel
Crëato,
faccia progressi senza che si
muoia.
Vinse Vortigern, quel
tirannizzato
crudele siniscalco, coi pagani
facente patti non corretti e
umani.
55
L’ Anglo-Sassonia germinava certo
com’ erba tra gli sbreghi di quel
Vallo
al tempo già un magnifico
reperto.
Lui già sapeva che non c’ era
stallo,
il tempo per un secolo coperto
da vivacchiarsi in gesta da
rimpallo.
I semi lui mesceva coi rottami
del mondo antico e nuovo, e i
tronchi e i rami
56
del Fato e dei Problemi, tra
reinnesti
ricomponeva in totem della Vita;
senza scartar la linfa dei
furenti
sciamani di Sassonia, che in
partita
vincevano con alberi perdenti.
Così l’ Europa al mondo è
partorita:
d’ ogni virtù civile germe e
aborto;
e nave ancora in viaggio senza
porto.
Nella Tavola d’Amore
abbiamo in primo luogo l’incontro tra Lancillotto e il Cavaliere Nero. Il
Tripode aureo di questa Epica: Eros-Politica-Mistero (con confluenza in
quest’ultimo del turismo rituale e del contatto con lo Straniero e l’extra
ordinario, secondo il modello omerico) è qui a pieno regime. L’ Eros deve
fomentare e non ostacolare l’opera di Giustizia; mentre all’ Avventura è
affidato il compito di disconnettere o connettere tutto: emblematica-nella
terza parte-la citazione dell’episodio di Circe, dove trasformarsi in maiali e
perlustrare da vivi l’Ade per incontrare Tiresia, si connettono come esiti potenziali dello
stesso mitologema.
Ma preme far notare l’impatto degli atti e degli ambienti nella versificazione:
l’ottava diviene sempre meno un abababcc d’endecasillabi per lo più compiuti, e
si popola di altre misure- volendo, alfanumerizzabili-per rimandi interni,
parabole, connessioni in diagonale, verticale e orizzontale. Il tutto a
beneficio-si vorrebbe-d’una certa teatralità cinetica e cinefila, e d’un
allegorismo fantastico al limite della pirotecnica. Il virtuosismo è ben voluto
(osservazione divenuta quanto mai
rivoluzionaria), ma solo se interno a un lavoro non sostanzialmente
virtuosistico. Volendo istituire una “corrente”
per questo ponte tra Tradizione (epica) e Avanguardia, potremmo parlare
di “aristotelismo barocco”: un passo tra Tasso e Cervantes; una rivisitazione
concettuale e psicoanalitica del folklore (prosciugato con l’andar dei secoli
dalle accademie colte); uno sguardo fisso, con prospezione utopista, al
presente.
153
E’ Tavola d’ Amore qui imbandita.
Amor che tutta avvolge la
Materia.
Bruciante amor sodale amor:
ferita
che svuota in spossatezza
deleteria;
ma è landa, a volte, piccola e
fiorita
come la nostra tra La Spezia e
Imperia:
stigmate in pelle d’ arte
trovatoria,
parentesi tra tomba e tra
baldoria.
154
Laddove Don Chisciotte nei mulini
vide giganti, il Cavaliere Bianco
i mostri vede, quelli a noi
vicini,
quelli che spesso vivono nel
branco
qui proprio a fianco; e i démoni
in mattini
vede, laddove un cavaliere stanco
s’ è perso in una forza
incantatrice,
tra gli acquitrini e il volto d’
una Attrice.
155
Il Potere feroce d’un tiranno
l’ annienta combattendo con
fierezza;
ma poi, caduto l’uomo, resta il
danno,
la sordida radice, una schifezza,
un pozzo senza fine di malanno...
che chiede, per mondarlo, quell’
altezza
che dà una conoscenza più
sottile,
nutrita nel profondo, e poi
civile.
156
Movendo per la Guardia Dolorosa,
fetida corte in cui l’ interno è
esterno
(e brutta dunque quanto ben
graziosa
quella d’ Artù, votata al buon
governo),
a lungo si fermò su un’ armoniosa
sponda, indugiando, prima dell’
inferno
che l’ attendeva, ed era pronto,
in quanto
il maniero era noto in ogni
canto.
157
Fantasticava di Ginevra, quando
nell’altra riva vide un duplicato
di sé, ma in armi scure, che in
rimando
alle sue mosse, lo imitava. Un lato
come quell’ altro lato già
sembrando
(pel verde in stile inglese e
vallonato)
col Bianco e il Nero identici in
moine,
pareva che uno specchio senza
fine
158
fosse a metà del guado, in tutto
il fiume.
Fece una specie di saluto al
Sole,
com’usa il fricchettone al primo
lume;
e il nero, uguale, e in mezzo a eguali aiuole.
Nacque il sospetto, un pallido
barlume,
d’ essere preso pei fondelli, e
vuole
il Bianco avvicinarsi, e il Nero
pure,
anche se spinto da ben altre
cure.
159
(San)Michele osserva i due
figuri, al flutto
semisommersi, nel cresposo
argento,
tra verdi vallonati eguali in
tutto.
A un videogame, pensò per un
momento:
come se fosse un futurista putto
e un monitor il mondo, acceso o
spento
se scorgi o meno fregi
artificiali...
Precognizione secca da immortali
160
che l’ ali gl’ increspò, mentre
le mani
pigiavano il comando immaginario,
come d’ un flipper, con effetti
vani;
sotto è l’umano, un campionario
vario
di nani: un quarto déi tre quarti
inani
bestie disposte a caso da un
Sicario
che è il Caso stesso, nell’ umano
messo
perché faccia progresso da sé
stesso.
161
Il Bianco e il Nero sono faccia a
faccia;
non sa ser Lancillotto se è una
Prova,
un gioco speculare che dispiaccia
o piaccia, hai da capire cosa
cova
sotto un mistero; o se era preda
in caccia
d’ un beffatore in nero, che ci
prova
a irriderti per poi fregarti
dopo,
facendo come il gatto con il topo
(…)
Nel prosieguo Lancillotto
sconfigge il Cavaliere Nero, ma rimane turbato: sarà stato individuo a sé, o un
fantasma significante la sua stessa condizione di innamorato ciondolante sulla
sponda d’un fiume? La ninfa Saraide interviene sostenendo che quello spettrale
“anti Lancilloto” era in realtà entrambe le cose: innamorato d’una Dama dei
Ghiacci, voleva guadagnarsi l’eternità accanto a Lei, ostacolando i Cavalieri
buoni che volevano destituire un tiranno, alleato di detta gelida Signora. In buona
sostanza, Urbano, il Cavaliere Nero, aveva per amore optato per la parte
sbagliata, pur essendo nell’intimo identico al Cavaliere Bianco che voleva
appiedare. L’insegnamento sul non dover mai fare ciò, può sembrare piuttosto
grossolano e sempliciotto… ma chi sa se a furia di appiccare il fuoco agli
abbecedari di Pinocchio, in tutte le loro edizioni, non sia tornata anche la necessità di fondamentali tanto
“naif”.
In un fraterno ma anche quasi
romantico abbraccio al plenilunio, Lancillotto e la sua sodale semidivina
assistono a un volo di arpie affiliate alla Dama dei Ghiacci, che portano in un
fagotto la nera ferraglia con dentro Urbano, per deporlo in un ignoto destino.
Lancillotto capisce che senza di lui sarebbe diventato come lui, e torna all’Azione
con questa nuova affezione fraterna per un ex nemico, aggiuntasi nell’animo.
E infatti a notte, stretti come
amanti,
Saraide e il Bianco (in fondo
fratellastri)
osservano la Luna, lì davanti,
bianca e gigante in mezzo agli
aurei astri.
Va a mezzanotte, ronda degli
andanti:
arpie reggenti cavalieri
impiastri,
cicogne inverse in mondo
parallelo;
e in volo adesso sul lunare velo.
177
“Saraide, dimmi,”fece pensieroso
il Bianco, che era in bianco un
po’ più sporco:
“come aggirare il mio pericoloso
destino...se in Urbano mi
distorco,
anch’ io sarò in partenza nel
boscoso
slargo; in vitello come Ulisse in
porco
mutato: e sempre è in bestia da
macello.
Sono nei ranghi un Cavalier
pivello,
178
“e già qui l’ antipasto è un
pasto immane!”
E in replica la ninfa: “Tu domani
t’ imbatterai in un Nero detto il
Cane;
e Urbano qui t’ ha dato a piene
mani
il senso contro al suo: chi
toglie il pane
ruba alla gente pure il suo
domani.
Dunque, con scopo di Giustizia, cresci
molto di più che al fiume assieme
ai pesci.
Conclusione: questo genere di
testi ripropongono a tratti una certa semplicità familiare, diremmo “pop”, e
così dovrebbe e vorrebbe essere; una apparente immediatezza sempre interna,
però, a una concettualizzazione acuta del discorso poetico. In un laboratorio come
il nostro è quasi obbligatoria l’auto presentazione, evitando naturalmente di
darsi da soli giudizi di rango e levatura estetica. Oltre a ciò, la natura di
questi lavori fa sì che anche le esposizioni fornite dall’autore, poche o
moltissime, possano essere facilmente rilevate, o altrettanto facilmente
escluse, nel testo o dal testo, da chiunque abbia interesse per queste
fattispecie e voglia prestarvi attenzione. Intendo poi con questa sommaria
disanima onorare la figura intellettuale del mio prefatore, un illustre docente
tanto versato per la poetica di Aristotele, quanto per il discorso critico
d’Avanguardia: e il ponte che lega queste due sponde sembra proprio la
“trasparenza e l’ esponibilità pubblica” del laboratorio.
Se l’Epica, qualsiasi epica, comporta
la demolizione antibiotica d’ogni ermetismo residuo e di tutto il suo
parentado, il genere qui rappresentato è una sorta di chemioterapia sradicante.
Consigliati comunque dosaggi robusti di “anti ermetina”, per qualsiasi
elaborato che voglia dirsi, a qualsiasi titolo, “epico”. Nell’Epica non c’è alcuna profondità che non sia permeabile; nell’epica
e non solo, mi sento d’aggiungere; in poesia e altrove. Nessuna crociata contro
scuole diverse, ma solo un discorso sulla coerenza di questa opzione, aristotelica
ma anche hegeliana (nel senso della Fenomenologia, ovvero il “Poema” del grande
filosofo di Stoccarda).
Con ciò, un certo tratto
sanamente esoterico, può essere al contrario
riqualificato entro una precisa dialettica sociale, storica, e antropologica;
in quella autentica “lotta di classe” che ha rappresentato nel grande passo tra
l’alto e il basso Medioevo, mediante l’eresia dualista cataro-albigese, molto influente in Italia nella nascente
letteratura nazionale, dalla Toscana alla Sicilia. Il dualismo di questi,
tendenzialmente iconoclasta e anti cosmico, ha prodotto una reazione termo
culturale nel contatto con il folklore vitalistico (se pure anch’esso
endemicamente dualista) e le gilde d’Artigianato dalle classi subalterne, da
una parte, e proprio con la poesia, dall’altra. Tale “positività negativa” (una
specie di ossimoro anche teologico), così tragicamente feconda come aspetto
infra religioso della Cristianità, ha creato un gioco irripetibile, stavolta
interreligioso, con la portentosa intelligenza islamica ed ebraica, influente fin dentro le prime università, che
fiorirono in quello che viene giustamente definito il “Rinascimento del 12°
secolo”: sgozzato da una sua precisa “controriforma crociata”, e che rimane un “rimosso utopistico” il cui
“ritorno” potrebbe molto riguardare svariati temi a noi cari, non ultimo quello
trattato in questo prezioso blog.
Alto e Basso (il Medioevo ma
anche il linguaggio), folklore e università, rimescolamenti dottrinari,
contaminazione interculturale, teorie d’emancipazione anche dei e fra i sessi,
corti “illuminate” (molto quella al femminile d’Eleonora d’Aquitania), hanno
costituito quel precocissimo seme, che una violenta ondata di pece di ignoranza
e di sangue ha sepolto per quasi tutto il 13°, appunto con le famose “crociate
interne”. Dante e la Commedia altro non furono che il geiser potente di quella
materia compressa, che ha bucato l’infernale placca e avviato quello che
sappiamo, comprese molte delle ragioni del nostro discorrere.
Concluderei proprio suggerendo ai
notevolissimi intellettuali, cui dobbiamo questa stupenda iniziativa, di considerare loro stessi il
rapporto che una Epica Nuova può avere col Sommo Poeta, col suo periodo storico
e con quello di cui il Vate fu maturissimo epigono, ovvero a mio avviso proprio
il 12° secolo. E quanto un’Epica Nuova, o per lo meno una della epiche nuove,
possa avere un rapporto con la “sapienza dei subalterni”, provando a
riaccendere la miccia sul folklore
innescata da Gramsci, e ripresa a mio avviso dal tardo Pasolini,
“dualista ed ellenista, parabolico e protestante, canoro e atroce”, di
Petrolio. Ma soprattutto, imploro dalla Redazione i bellissimi testi di cui
Essa, in svariati membri, è capace. Con affetto gratitudine e ammirazione,
Paolo Borzi
EXTRA
(…)
Partendo a caso, adulterai del
conio;
ma non come a un falsario si
conviene:
più indemoniato all’ arte del
demonio,
il falso già all’ origine, con
piene
virtù legali, a Tizio ed a
Sempronio,
versai sapendo che contava
niente.
Ed estorcevo il sangue a quella
gente;
partita e persa in guerre per
promessa
o pretesti inventati, e in caso
uccisa
con un invito a cena oppure a
Messa.
Son traditore, in formula
precisa,
di ospiti, d’ amici e per
commessa
benefattori pure. Ho poi derisa
la brava gente e i poveri di
Dio...
e calunniata a un modo tutto mio:
spargere il dogma della
nefandezza
celata in ogni uomo: quale sia
non fa un delitto solo per
pochezza.
N’ ho fatti lapidare, per la via,
inventando di loro ogni
schifezza.
Ai barbari insegnai l’ ipocrisia:
clericalismo di facciata; e ho
appreso
l’ uccisione rituale d’ indifeso.
Tradii due patrie: quella ancora
in germe,
per averne il controllo generale,
promuovendo puttane e menti
inferme;
e quanto ci restava di imperiale,
rendendo Roma ai barbari più
inerme.
Mescendo sempre il peggio col
banale,
mi corruppi talmente i sentimenti
da copular tra morti ed
escrementi.
Necrofilo pedofilo e omicida,
capisco qui che il Male,
dominando,
è alieno: l’ aria infatti è
malicida,
e l’ uomo che è malvagio,
respirando,
ne contraddice la continua sfida;
Lo capì Giuda quando, già
impiccando,
gettò i baiocchi, e chiusesi la
strozza
per non riaverli nella landa
sozza.
(…)
Da “la confessione di Virtigern”
all’Inferno
Borzi è un poeta picaresco, pirotecnico, dottissimo, con una grande mente in cui succede di tutto... e con un grande cuore, senza il quale la mente di un poeta non può nulla. Noi lettori gli siamo grati per questo teatro performatore di una parola poetica assurda, funambolica, densa in ogni virgola di riferimenti spesso imprendibili. L'avventura rodomontica continua...
RispondiEliminaPaolo Borzi, tramite redazione, risponde così al commento di Alessandra Paganardi:
RispondiEliminaSì, adorata Ale: connessioni (testo etero telico, riferito continuamente ad altro) e assurdo (testo etero prospettico, o straniante): per me, le due note incessanti che dovrebbe avere un testo letterario, in versi o prosa che sia, almeno per la mia idea, fortunatamente non l’unica, e soprattutto per la fattispecie che interessa questo blog. Oltre i complimenti davvero generosissimi, a me sta benissimo-e ci mancherebbe-anche il picaresco, il funambolico etc…, posto sia chiaro che il “format”, al di là dei limiti o le specificità dell’autore, vorrebbe essere l’esatto contrario della parodia bassa, della caricatura sarcastica, della dissacrazione borghese su un materiale tenuto come “aristocratico” e medievale, e che per me resta nell’anima sottoproletario e immortale. Del Comico non ho parlato per non fare autocritica letteraria, fermandomi agli espedienti pratici, ai filosofi che amo, alla cultura generale. Diciamo che è un elemento portante dello straniamento, pur non collimando completamente i concetti: come sai e come hai visto applicato in altri miei lavori, su cui hai anche proluso e scritto. Una futura opera che, a una lettrice e Poetessa del calibro di Alessandra Paganardi, risultasse un po’ più imperdibile e meno imprendibile nelle connessioni, un po’ meno assurda e un po’ più straniante, sarebbe quella di un bel passo in avanti. Che Iddio e la voglia mi consentano almeno di provarci. Un grande e grato bacione. Paolo