M U L T I
V E R S O
Il ‘Multiverso’ è un insieme
di
universi coesistenti e alternativi, spesso denominati dimensioni parallele.
Sono considerati dalle teorie scientifiche al di fuori del nostro spaziotempo,
almeno finora! Il termine fu coniato nel 1895 dallo scrittore e psicologo
americano William James, ma il concetto di universi paralleli è diventato un
classico grazie allo scrittore di fantascienza Murray Leinster. Dal punto di
vista scientifico il concetto di multiverso è stato proposto in modo rigoroso
per la prima volta da Hugh Everett III nella sua interpretazione della
meccanica quantistica. A noi piace molto l’interpretazione basata sulla teoria
delle stringhe secondo la quale la materia è composta da minuscole onde
vibranti in uno spazio di 11 dimensioni più quella temporale. Come diceva
Giordano Bruno: “...non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole: ma tanti son
mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose." Infiniti mondi che
vibrano intorno a noi.
Paolo Rabissi:
Il talento ha bisogno di un’estetica, un’estetica
può anche prescindere dal talento del poeta.
Franco Romanò:
Certamente, un poeta senza estetica e poetica è
come un matematico senza matematica, un filosofo senza filosofia.
Paolo Rabissi:
Partirò, ma per poco, dalla mia produzione.
Considerando che l’epica tradizionale, così
come la conosciamo, è morta e sepolta in Italia, è possibile parlare di
un’epica contemporanea diversa? Se sì, che caratteri ha? E se sì ha senso
chiamarla ancora epica, intesa come epica del mondo contemporaneo, o ha più
senso sforzarsi di definire diversamente quei caratteri? Nel mondo borghese in
cui viviamo l’aggettivo epico a cosa rimanda? A me viene spontaneo dire
anzitutto all’infanzia e all’adolescenza. Cosa c’è di più epico del mondo dell’infanzia
e dell’adolescenza? In questo senso i romanzi di formazione in versi, cui è
stata assimilata molta della mia produzione poetica, sembrano poter rientrare
nell’epica contemporanea.
Ma possiamo ora andare oltre con qualche
risposta. Leggo sulla Treccani: Nel linguaggio della critica letteraria
contemporanea, l’aggettivo ‘epico’ si usa talora in contrapposizione a lirico,
per indicare una poesia di carattere oggettivo e narrativo: i poeti post-ermetici
tendono a dissolvere il lirismo assoluto in un tono epico (il corsivo è
mio).
La definizione è interessante per molti aspetti.
Anzitutto perché afferma, quasi senza tema di smentita, che i poeti
post-ermetici hanno oramai dissolto il lirismo nel tono epico. Che è
un’affermazione abbastanza singolare vista l’iper produzione di poesia lirica
attuale. E però non si può dire che non risenta di un certo clima che si è
venuto diffondendo nell’ultimo decennio in particolare col rinnovarsi di una
volontà poematica più marcata che nel passato e soprattutto con una diffusa, ma
non molto dichiarata, propensione a un verso più limpido e narrativo. La
definizione, con quel recupero del ‘tono epico’, fa piuttosto venire in mente
che esso vive dentro di noi come un sottofondo primigenio, che per una serie di
motivi consideriamo legato all’infanzia del mondo, sia storicamente – vedi
appunto l’epica antica e quella medievale fino ad Ariosto – sia perché è forte
oggi la critica alla produzione di miti (eroici e/o eroicomici): ma anche qui
occorre fare subito una considerazione e cioè che la produzione di miti è una
costante dell’umanità, oggi più che mai nella versione di merce mediatica.
Ma riprendendo il discorso, possiamo dire
che di tutto ciò che viviamo possiamo dare una versione epica, a tutto possiamo
dare un tono epico. A dimostrazione che anche all’epica del quotidiano siamo
sensibili, non fosse che ci appare troppo infantile, arretrata, semplicistica,
troppo facile. Essa confina, nella nostra sensibilità di adulti, con la
mitomania. Di qui la necessità di venire a patti smorzando quanto di retorico e
ridondante il tono epico può portare con sé. Per questo un poeta di oggi è
armato di tutto punto per evitare queste derive e sta attento, anche nella
tensione lirica, a evitare toni epici, salvo magari cadere nell’eccesso
opposto. Ma certamente il poeta che oggi legittima ai propri occhi, magari
inconsapevolmente, il sentimento dell’epica, quanto meno conserva dell’epica
tradizionale nei suoi versi il registro più oggettivo e più narrativo, che non
è per sé prosa ma che sicuramente si sottrae all’oscurità ricercata dei
significanti e ai crucci individuali esistenziali e identitari magari
autoironici. Piuttosto - il poeta che legittima ai propri occhi, magari
inconsapevolmente, il sentimento dell’epica - sceglie contenuti, che abbiano
una forte radice nella storia individuale e collettiva. Non dirò per ora quali contenuti
perché ho appena scritto che una volta legittimati ai nostri occhi ‘il tono e il sentimento’ dell’epica,
qualsiasi contenuto può essere attraversato epicamente, dirò invece che essi
non possono che essere quelli che la Storia ci consegna. Voglio dire che se c’è
un retroterra non sentimentale che può distinguere un percorso epico in poesia
esso non può che essere un forte senso della Storia.
Franco Romanò:
Partirò anch'io dalla mia poesia e
dalla svolta che, da un certo momento in poi, ho avvertito come necessaria. Un
tono epico, qui e là, affiorava anche nel primo libro che pubblicai - Le radici immaginarie -, ma la vera
prima svolta fu un testo (Il ritorno),
pubblicato sulla rivista Smerilliana. Si tratta di un poemetto epico-lirico che
ha al proprio centro il mito classico, sebbene con soluzioni sia linguistiche
sia ambientali che sono assolutamente contemporanee. Tuttavia, la storia
rimaneva sullo sfondo e le ragioni le conosco molto bene. Finché mi sono
sentito dentro un percorso politico di cambiamento radicale, la storia stava
all'interno di una prassi. Ho tardato più di altri, da un punto di vista
emotivo, non certamente razionale, a prendere atto che c'era stata una cesura
drammatica e irreversibile. Andare verso il mito per me è stato fare un passo
in direzione della Storia, che infatti si è presentata subito dopo come
esigenza di tematizzazione poetica, imprescindibile, ma anche insidiosa, perché
era impossibile affrontare tale tematica ignorando che anch'essa possiede a sua
volta una tradizione; mi limito al secolo scorso.
La poesia e il poeta di fronte alla Storia,
dagli anni '20-30 in poi, è un problema che si ripropone ciclicamente. Con il
tempo è scaduta sia la tempra e la statura dei protagonisti, sia la qualità
della poesia. Il tema, però, resta importante perché ha a che fare con l'epica
nuova e quindi vale la pena ripercorrerne un po' le vicende.
Tutto comincia quando una nutrita
schiera di poeti e narratori inglesi decide di partecipare alla guerra di
Spagna: la parola impegno (engagement) nasce allora ed è di origine inglese
anche se l'identità grafica con lo stesso termine francese ha poi dirottato
sulla lingua transalpina la pronuncia del termine. Oltre a questo vi è un
secondo filone, inaugurato dai manifesti del surrealismo di Breton e proseguito
con il ‘Manifesto per un'arte rivoluzionaria’ scritto a quattro mani nel 1938
insieme a Leone Trotskj, che perseguono un progetto ambizioso: collegare
l'avanguardia surrealista in modo organico con l'avanguardia comunista. Tutto
ciò che è successo dopo, rispetto al rapporto arte-politica-storia, compresa la
produzione che di solito si indica con il termine peraltro assai ambiguo di poesia civile è una
riscrittura e anche un rifrittura di questi calchi iniziali e poco più.
Qualcosa, però, va aggiunto a tutto ciò e riguarda solo l'Italia. Le due ‘cose’ italiane sono il
neorealismo e la neoavanguardia. Il primo mantenne un respiro internazionale
nel cinema (Rossellini girò ‘Germania
anno zero’ e ha fatto la storia del cinema non solo italiano e lo
stesso per De Sica ecc.), la seconda è un fenomeno solo nostrano, dovuto al
ritardo storico generato dal ventennio fascista. Nei paesi dove le avanguardie
sono nate non è esistito un movimento analogo (qualche somiglianza, ma solo
superficiale, si può riscontrare con il nouveau roman francese e l'école du regard)
perché il meglio lo avevano già dato nel periodo storico che è stato il loro in
tutta Europa e cioè l'ultimo ventennio del diciannovesimo secolo e i primi
trentanni del ventesimo. Il fascismo utilizzò l'avanguardia, ma poi la
rinchiuse dentro le maglie anguste della poetica di regime.
I presupposti teorici delle
avanguardie sono stati sostanzialmente due: il manifesto come strumento di
agitazione e programma, volendo con questo significare un processo che Benjamin
avrebbe definito di ‘politicizzazione delle arti’ per contrastare ‘l'estetizzazione’
della politica e in secondo luogo la convinzione che la sovversione del
linguaggio e delle sue convenzioni sintattico-grammaticali fosse la premessa
necessaria alla sovversione politica e sociale. Questi due nuovi elementi si
sono sovrapposti in Italia al vecchio calco degli anni '30, la cultura di
sinistra li appoggiò entrambi e non sempre strumentalmente, il '68 li confermò
con l'aggiunta di un tratto moralistico tipicamente piccolo borghese (anche se
l'ispirazione veniva dalla lontana Cina della Rivoluzione Culturale
Proletaria): l'arte, la poesia ecc. sono un lusso che la rivoluzione non si può
permettere. Lasciando stare le degenerazioni, la degradazione di tutti questi
calchi e modelli, penso che se vogliamo chiarire quali siano i contorni di una
poesia epica e nuova, occorra fare i conti con le testimonianze più alte di
questo percorso, andando a individuare qual è il limite che condividono, anche
nel loro momento migliore e cioè quando riuscirono a esercitare un'egemonia
reale e anche a produrre opere che tuttora ci sembrano valide; questo vale
anche per la cosiddetta poesia civile.
Il limite io lo vedo nello scambio
che avviene fra centralità dell'opera e centralità del suo autore. In altre
parole, l'importanza sta nel gesto compiuto dall'artista, in quanto testimone.
Che Orwell e altri siano in Spagna a combattere (riprendendo in questo modo la
tradizione romantica inglese - Byron che muore in Grecia ecc. - ) è in fondo
più importante di quello che scrivono e infatti, a parte ‘La Fiera degli animali’ e ‘Omaggio
alla Catalogna’, si ricorda poco altro e anche quelle due opere, se le
guardiamo nel contesto della grande narrativa e poesia del '900, sono infondo
poca cosa. 1984 di Orwell e tutte le opere di Huxley sono ben più
importanti di quelle che presero spunto dalla Guerra di Spagna. Lo scambio fra
opera e testimonianza dell'artista, resse finché gli interpreti furono comunque
di alto livello, con il tempo il modello diventò il pretesto e il grimaldello
per dare credito a qualsiasi forma di testimonianza come prodotto artistico. Il
paradosso in tutto questo è che proprio chi vorrebbe abbattere la cosiddetta
torre d'avorio in alto alla quale l'artista si sarebbe collocato, finisce per
ottenere l'effetto opposto e cioè quello di una iper valorizzazione del suo
gesto di testimone piuttosto che del valore intrinseco della sua testimonianza.
Lo stesso vale per alcune opere
estreme delle avanguardie, per esempio L'orinatoio di Marcel Duchamp. Non a
caso, il titolo dell'opera è quasi sempre seguita dal nome dell'artista: perché
in realtà il gesto di porre un manufatto qualsiasi in un contesto artistico
vale in quanto è stato proprio lui – Marcel Duchamp - a compierlo: se fosse
stato un artista meno noto nessuno ci avrebbe fatto caso. Se nominiamo la
Gioconda, non c'è alcun bisogno di dire che si tratta di Leonardo da Vinci:
l'opera, nel secondo caso, vale di più del suo artista.
C'è un episodio accaduto alla poeta
Anna Achmatova durante il periodo staliniano che aiuta a capire meglio. Lei è
in fila davanti alla sede della GPU per aver notizie di un congiunto imprigionato
e con lei ci sono centinaia di persone. Il clima è funereo, nessuno parla, sono
tutti chiusi nelle loro disperazioni. Una signora anziana a fianco della
Achmatova la riconosce (dobbiamo considerare che in Urss come nell'est europeo
in generale le letture poetiche avevano un pubblico di massa e quindi i volti dei
poeti erano noti), gli occhi le si illuminano, poi si rivolge alla scrittrice e
le dice “Lei può raccontare tutto questo.” Cosa chiede la signora anziana in
realtà? Anche lei avrebbe potuto raccontare, ma si affida a chi poteva rendere
corale e dunque universale la tragedia che si stava consumando. Lei, la signora
anziana, avrebbe potuto essere solo una testimone, alla Achmatova si chiedeva
di diventare la Testimonianza: se un'opera non è questo e rimane pura
testimonianza, diventa meno importante dell'artista testimone.
L'epica c'entra in tutto questo nel
senso che non può essere né estemporanea come spesso avviene nella cosiddetta
poesia impegnata o civile (c'è
la guerra in Iraq facciamo una lettura contro la guerra), ma emblematica e
memorabile, cioè degna di essere ricordata. Non può quindi abbracciare un
singolo episodio, o può farlo all'interno di un contesto più ampio che
giustifica quella scelta particolare. Il concetto alto di correlativo oggettivo
elaborato da Eliot aiuta a capire: perché Eliot è il solo ad avere ragionato su
questo nel '900, anche se la parola epica non fa parte del suo lessico.
Tuttavia, la sua insistenza nel dire che la materia di cui si occupa il poeta
deve avere una oggettività per tutti e non soltanto riflettere il suo
cosiddetto mondo interiore, lo allontana dalle poetiche impressioniste e anche
dallo psicologismo deteriore. Certo, Bertolucci porta nella sua partitura epica
anche la nevrosi come fenomeno di massa novecentesco, ma proprio perché è già
stato fatto e non ha avuto continuatori degni di nota, va ricordato in sede
critica anche per l'importanza che ha avuto nel tenere comunque alto il
vessillo dell'epica in un momento in cui veniva accantonato, ma può essere
lasciato dove sta. Se mai, sarà molto
più importante cercare in altre scritture poetiche non canonicamente epiche in
senso stretto, ma fortemente ancorate alla storia e alle trasformazioni sociali
di cui furono testimoni, altri esempi importanti. Penso in primo luogo
all'espressionismo, ma non solo. Quanto ai contenuti, come dici
tu, è la storia a suggerirli, poi si tratta di selezionare.
Paolo Rabissi:
Cito un tuo scritto di alcuni anni
fa: ‘La poesia epica sarebbe dunque
fuori gioco (oppure confinata in una marginalità senza speranza) per il venir
meno della materia epica da un lato e per la marginalità cui è fatalmente
condannata la poesia in Occidente, a causa dell'inarrestabile secolarizzazione;
a quest'ultima si addice di più una poesia sottomessa e sotto tono, senza tante
pretese’.
Dato che non si può ascriverle
all’ignoranza, è difficile capire per quali motivi ci sia nei poeti
contemporanei tanta ritrosia e rassegnazione nei confronti della poesia epica.
Ancora poche settimane addietro un poeta di sicuri mezzi e prospettive con alle
spalle un bilancio critico più che positivo, alla mia domanda a proposito dello
stato dell’epica, rispondeva deciso che essa è morta e non è più attuale e che
all’epica del quotidiano, sotto il quale titolo ho ripubblicato quest’anno un
mio lavoro su Bertolucci, non ci crede per niente. Trascuro qui per ovvi motivi
il fatto che la sua produzione è ai miei occhi epicissima!
Forse allora si tratta di capirsi e
ridefinire l’epica alla luce della modernità e della contemporaneità.
A voler fare una recensione del
materiale epico che Otto e Novecento ci hanno lasciato in eredità, a volerla
fare poi anche su quello che ci offre il nuovo secolo, credo non basterebbe un
quaderno anche se evidentemente qualcosa bisogna cominciare a dire, perché si
tratterà di dare una definizione anche della poesia attuale in generale.
E però forse è altrettanto opportuno
riconsiderare la natura dell’epica italiana in generale e cercare di spiegare i
motivi della sua emarginazione nell’immaginario collettivo.
Se la poesia epica ha a sottofondo
guerre e trasformazioni epocali legate alla caduta di imperi o a scontri di
civiltà è anche vero che essa nasce legata al mito e alla fantasia. L’epica
nasce sì con l’Iliade, che narra di una guerra ma che ha già di suo un legame
stretto col divino e la favola, ma anche con l’Odissea che la guerra ce l’ha
alle spalle ed è invece avventura e fantasia pure. E mito e fantasia, magia e
fiaba, danno vita alla saga dei Nibelunghi, che fiorisce dopo la epocale caduta
dell’impero romano; sono sostanza dei vari cicli epico cavallereschi dopo
l’invasione dell’Europa da parte dell’Islam e la riconquista di Carlomagno; per
non parlare dei poemi di Tasso e Ariosto per dire solo dei grandi, pieno di
magia e tormenti drammatici d’amore e religiosi immersi nella lotta tra bene e
male l’uno, di puro senso fiabesco l’altro (lascio per ora da parte Dante sul
quale tornerò dopo).
Guerre universali di base dunque, ma
cariche di magia e fiaba, di amore e morte, di eros e sensualità. I poeti
contemporanei italiani, fatte alcune eccezioni e limitando l’analisi solo
alla seconda metà del Novecento e trascurando chi scrive versi occasionali
sull’onda emotiva di avvenimenti drammatici di carattere sociale e politico,
non hanno più dimestichezza col verso epico, e hanno dunque rinunciato da tempo
a coltivare in poesia drammi epocali, avventura, fiaba e magia e mistero.
Preferendo rispettare una divisione coatta del lavoro per cui tutto ciò viene
lasciato ad altri generi letterari.
Perché?
Metto in fila una serie di
considerazioni per rispondere alla domanda.
1) L’attuale iper-divisione del
lavoro destina magia e fiaba ai bambini mentre agli adulti devono
essere riservate cose diverse. Non c’è da stupirsi. La rigidissima
organizzazione capitalistica del lavoro e dunque di tutta la società, espelle
dalla produzione di massa fantasia e creatività (mentre diventano requisiti
unici e imperativi - sii creativo! - di certi settori cosiddetti d’élite della
produzione) che devono ritagliarsi spazi e territori altrove e solo con
funzione di entertainement, cioè di consumo immediato e senza eco dall’istante
del godimento in modo da poter riprodurre presto un consumo ulteriore.
2) Coltivare in poesia fiaba, magia,
mistero e avventura su uno sfondo sociale di drammi collettivi richiede senza
mezzi termini disponibilità alla narrazione: cioè il contrario dei registri
ermetici e della neoavanguardia e di quanto ruota intorno alla poesia lirica
nel secondo Novecento: il tutto ha avuto una vera e propria egemonia sulle
patrie lettere fino ad oggi per cui suona bizzarro e demodé un amore per
l’epica.
3) Mi sembra di poter aggiungere che
ci sono molte probabilità che l’egemonia della poesia lirica nel secondo
Novecento sia dipesa anche dal retaggio storico del petrarchismo: se è così, e
accettando anche una certa dipendenza dal petrarchismo sia dell’ermetismo che
della neo-avanguardia, allora la ritrosia e/o diffidenza verso la poesia
epica affondano in una tradizione secolare, dato che poemi epici secondo i canoni
tradizionali non compaiono più nelle nostre lettere dal Seicento.
4) Il poema epico-lirico italiano per
eccellenza, cioè la Commedia di Dante ha una sua peculiarità indigesta:
richiede l’impegno politico, richiede una dichiarazione di parte, chiede di
schierarsi. Non solo scegliendo tra Guelfi e Ghibellini ma addirittura tra
cristiani e atei. Dante, in nome di una giustizia superiore di cui si fa
coraggiosamente interprete, condanna papi e uomini politici come Bonifacio VIII
e Farinata degli Uberti, personaggi che in ultima analisi sono suoi nemici. I
poeti italiani l’hanno ben presente: quando si parla di epica sullo sfondo c’è
il sommo poeta (e subito dopo di lui nientemeno che Tasso e Ariosto): non
c’è da stupirsi se ci si senta dei nani, ma si rinuncia a misurarsi, come
condannati a un vizio di posizione, quello che tiene lontano da un engagement
che mobiliti scelte e opinioni di natura politica e sociale, religiosa e
civile, cortigiana o libera: si preferiscono insomma gli sterminati territori dell’indagine
dell’io e del verso, dell’essere e del suo significante, con risultati degni di
grande valore e considerazione ma accanto ai quali potrebbero ben figurare
anche altri percorsi. Il che, detto per inciso, significherebbe lasciarsi alle
spalle la cultura dell’’aut-aut’ a favore della cultura dell’’et-et’.
Nel secondo Novecento Sanguineti e
Pagliarani sono schierati, e non a caso la loro vocazione poematica si
configura in qualche modo come epico-lirica. L’impressione poi è che l’essere
stati immessi nel crogiolo della neoavanguardia non abbia loro giovato gran
che.
Il problema è che la parola d’ordine
‘fuori la politica dalla poesia’ che, per restare al secolo scorso, risale al
primo Novecento non può non aver aggiunto il suo peso sull’emarginazione della
poesia epica anche nel secondo.
I retaggi, si sa, determinano
conformismi e pigrizia dunque non è la mancanza del materiale epico a
fare la differenza ma l’assuefazione a quel tipo: che tra l’altro nel
prodursi saccheggia a larghe mani il verso epico e epico-lirico della
tradizione!
Ma c’è di più. L’egemonia della
poesia lirica, a discapito di altre possibili fonti di produzione poetica, ha
avuto come conseguenza anche l’incatenamento della critica letteraria ad essa.
L’esercizio della critica in altre parole ha scelto, forse con una certa
pigrizia anche se con strumenti raffinatissimi d’indagine, di starle addosso e
affinarsi nell’esplorazione delle formule più convincenti per definire la
poesia lirica. Nelle storie della letteratura italiana vige come un
comandamento il trittico: Carducci (l’ultima produzione), Pascoli, D’Annunzio
come decadenti, il che starebbe sicuramente stretto a tutti e tre; Ungaretti,
Montale, Quasimodo come maestri dell’ermetismo, il che starebbe strettissimo a
tutti e tre. E ormai siamo in grado di rinvenire almeno un altro paio di
trittici che riguardano neorealismo, scuola lombarda e neo orfismo, con i
medesimi risultati e cioè che i nomi degli autori (al lettore la loro
identificazione) sicuramente si ritroveranno stretti dentro la definizione. A
dimostrazione ancora una volta che se il discorso sui generi poetici può a
molti risultare obsoleto, è altrettanto superato quello della ricerca continua
di una identità degli autori dentro un canone, esercizio reso inutile da quella
felice commistione di soluzioni poetiche che l’età contemporanea offre con
l’incontro di molteplici culture, nelle quali l’epica a dire il vero sembra
godere di buona salute. Perché, non solo il materiale per la poesia epica è
abbondantissimo ma bisogna anche aggiungere che i versi di molti autori sono
già dentro i caratteri dell’epica ma non si ama definirli in quel modo. Ma qui
il ragionamento torna ad investire la necessità di chiarire quali siano appunto
i materiali di un’epicanuova.
5) S’impone invece qui un’ultima
considerazione. L’avvento del fascismo e della sua prosopopea autarchica ha
contribuito in maniera determinante a creare i presupposti per una chiusura
ermetica (!) delle nostre lettere alle influenze e alla condivisione dei
percorsi d’Oltrealpe e d’oltre oceano (il nostro amato Occidente). Le
avanguardie storiche che Oltrealpe conoscono tra anni venti e trenta la loro
espressione così ricca di avventure dello spirito, passami il termine, non
hanno fatto a tempo a fecondare la penisola ormai chiusa nelle sue frontiere.
Frontiere autarchiche come quelle del futurismo di Marinetti accoccolato ben
presto nei palazzi fascisti. Frontiere nazionali comunque, cariche di umori
certamente e con una tradizione lirica che non ha uguali, ma senza il rimescolamento
e il meticciato delle culture che poi fascismo e nazismo hanno schiacciato o
costretto a emigrare Oltreoceano. Le eccezioni sono comunque numerose, ma c’è
da chiedersi in effetti come si spiega che nella poesia italiana dagli anni
trenta in avanti più che poesia lirica non venga prodotta. Tale trend continua
nel secondo Novecento quando ad
essa si affianca una poesia di carattere esistenziale e metafisico, caratteristiche
queste che, nel loro prezioso lavoro di cesello sui significanti, investono in
qualche modo anche la neoavanguardia.
Franco Romanò:
Davvero importanti queste tue nuove
considerazioni che condivido. Solo qualche chiosa sui cinque punti. Sul primo e
il quinto poco da dire, se non che andrebbero ulteriormente approfonditi, specialmente
il primo. Il nesso fra la divisione capitalistica del lavoro e la rigida
compartimentazione dei generi è una delle gabbie più pericolose e non riguarda
solo la poesia. Ricorderai forse che ne parlammo per quanto attiene la regia
teatrale e il suo esasperato specialismo: mentre da Shakespeare a Pirandello
erano sempre stati gli autori stessi a mettere in scena le loro opere.
Sul punto quattro. Piena
condivisione, vorrei aggiungere due questioni. La prima riguarda le avanguardie
del primo ‘900. La rottura più radicale che hanno introdotto non è quella
superficiale del rifiuto dell’accademia, la provocazione ecc., ma la pretesa,
che si estrinseca proprio nell’uso del Manifesto, di strappare alla filosofia
il primato dell’estetica e quindi il compito di definire il canone o i canoni.
In sostanza da Aristotele fino al primo ‘900 erano i filosofi a dettare i
canoni, le avanguardie più consapevoli (il surrealismo per esempio, ma anche il
futurismo russo e l'espressionismo), dicono che no, che sono i poeti stessi e i
pittori a divenire teorizzatori della propria estetica. Eliot, che appartiene
anche lui all’avanguardia ma con modalità tutte sue, tanto che non fece mai
parte di un gruppo, se mai di un sodalizio personale molto forte con Pound,
scrisse negli stessi anni che il poeta doveva per forza farsi anche critico,
cioè non poteva essere ingenuo rispetto alla tradizione, né poteva delegare ad
altri questo compito. Eliot però aveva una concezione molto alta della critica
e i suoi riferimenti infatti escono abbondantemente dal recinto letterario,
tutta la sua riflessione ha alle spalle la ricerca magico-antropologica di
Frazer (Il ramo d’oro) e la
filosofia di Berkeley. I gesti compiuti dalle avanguardie portarono
necessariamente alla moltiplicazione dei canoni e quindi alla loro
relativizzazione, ma aprirono anche le porte a un fai da te assai pericoloso;
oppure a giravolte assai disinvolte della critica (Anceschi, per esempio, tenne
a battesimo tutto e il suo contrario). È vero che rispetto a qualsivoglia canonizzazione
tutti si sentirebbero stretti, ma mentre in alcuni casi si può affermare che
sempre una definizione di canone incontra il suo limite di fronte alla grande
personalità poetica, in altri casi la ristrettezza è dovuta alla poca o nulla
fondatezza dei presupposti. Per esempio l’ermetismo: io vorrei davvero che
qualcuno dicesse cosa sia, perché - o si trovano definizioni scolastiche - oppure
addirittura esoteriche (Ermete Trismegisto), di cui non si trova poi alcuna
traccia sia nelle poesie degli ermetici sia nelle loro riflessioni, a volte
addirittura inesistenti o quasi. Forse, un parziale ritorno ai classici
dell’estetica non farebbe male.
Paolo Rabissi:
D’accordissimo, rileggiamo la critica stilistica di Spitzer ad esempio. Provo ora ad articolare i temi che, nelle nostre conversazioni in preparazione di questo documento, si sono imposti alla nostra attenzione.
D’accordissimo, rileggiamo la critica stilistica di Spitzer ad esempio. Provo ora ad articolare i temi che, nelle nostre conversazioni in preparazione di questo documento, si sono imposti alla nostra attenzione.
Decadentismo e primo dopoguerra
segnalano in Italia la comparsa come protagonista in letteratura dell’antieroe,
laddove nell’epica tradizionale sono proprio l’eroe e l’eroina ad essere
protagonisti. Ma eroi e antieroi si accampano individualmente in primo piano
mentre Ottocento e Novecento in primo piano ci mettono se mai eroismi
collettivi. Sono i soggetti sociali e politici forti ad essere al centro del
nostro discorso. Soggetti che hanno vinto in qualità di vita, cultura e
identità più di quanto non si pensi o dica e che in più hanno dimostrato la
capacità di farsi avanguardie di un nuovo mondo, senza disdegnare
consapevolmente l’utopia. Perciò ci sembra di poter dire che un'epica nuova, non potrà essere guerresca e/o legata ad assoluti fideistici, anche perché la qualità eroica si è diluita e distribuita sui soggetti collettivi, fino a scomparire nella sua accezione tradizionale individualistica.
Nel rapporto d’amore lo scontro
tra eros e thanatos è dovuto alla competitività che si scatena quando la donna
non accetta più i ruoli che la cultura patriarcale prettamente maschile le ha
imposto spacciandola per naturale se non addirittura di origine divina. Il
conflitto, quando esplode, è devastante e mette in crisi l’identità maschile.
Esso può risolversi nel momento del riconoscimento (…reciproco: qui il
femminismo non dice molto se non con posizioni così radicali che finiscono col
lasciarsi alle spalle la maggior parte delle donne, come sempre succede tra
avanguardie e massa, la quale ultima infine non se la sente di intraprendere
quel percorso) della differenza e della autonomia della donna e dell’uomo, il
che non comporta di fatto la famiglia o l’unione fissa perché l’asimmetria
della condizione femminile attraversa tappe imprevedibili e non programmabili
in buona fede nel percorso di un’appropriazione più o meno stabile della
propria identità: la rivoluzione dei costumi apre all’emancipazionismo ma
lascia interamente aperta la questione della liberazione della donna che non
può avvenire senza una contemporanea presa di coscienza dell’uomo, senza la
critica delle leggi patriarcali che hanno dominato una storia millenaria.
Quando ciò non avviene, e perlopiù ancora non avviene, succede anche che il
maschio rischi di rimettere la propria ricerca nelle mani della donna che sente
più agguerrita, salvo poi imbestiarsi nella violenza omicida a causa del vuoto
identitario nel quale può ritrovarsi: soprattutto se persino il baluardo
estremo della sua identità, cioè il posto di lavoro, viene meno. La messa a
tema della relazione tra uomo e donna, frutto del femminismo dalla fine
Ottocento a oggi, segna la nostra epoca in maniera irreversibile. Eros e
thanatos si accampano dentro un conflitto che mette in discussione una intera
civiltà. Cosa può dire in proposito oggi una epicanuova?
Ottocento e Novecento sono peraltro
segnati dal conflitto tra operai e capitale e non occorre scomodare la lotta di
classe per rendersene conto. A destra ovviamente si preferisce definire quel
conflitto come l’eterno scontro tra ricchi e potenti da una parte e i poveri
dall’altra. Non gli si può dare torto. Dopo circa due secoli di scontro tra due
dei soggetti storici più eminenti, il padronato e la classe operaia, a conti
fatti siamo tornati al punto di partenza. La fine del comunismo e del
socialismo ha riportato lo scontro alle origini: ridotta al silenzio, anche se
non scomparsa, la classe operaia, di classi ne è rimasta una sola, in una versione
quasi medievale perché ci troviamo di fronte a una aristocrazia, quella
finanziaria, che al momento sembra essere l’unica potenza realmente capace di
distruggere se stessa e la civiltà occidentale. Fordismo e Welfare, l’uno con
il comando tirannico di forme di produzione rigidamente legate alla catena di
montaggio, l’altro simbolo delle lotte operaie che a quella tirannia hanno
imposto aggiustamenti civili di sopravvivenza, hanno dato nome a una civiltà
che oggi appare un sogno irripetibile ai più. La capacità operaia di tradurre
in conquiste di civiltà democratica l’impegno generoso nel conflitto da
una parte e dall’altra la illuminata azione di qualche imprenditore come
Adriano Olivetti o Enrico Mattei hanno fatto la storia di questo scontro nel Novecento:
il meglio di questa storia deve essere ancora scritto. Può farsene carico a suo
modo anche una poesia di epicanuova?
Intere generazioni in questo scontro
hanno abbandonato legami e rotto vincoli secolari scavalcando le Alpi e
l’oceano in cerca di lavoro, sono state un soggetto importante e decisivo tanto
quanto silenzioso: la narrativa ha risarcito questo silenzio. E la poesia?
La seconda metà del secolo ha
assistito a trasformazioni epocali. Basterebbe pensare ai milioni di persone
che hanno abbandonato le campagne per indirizzarsi nelle città: negli anni
cinquanta quasi il cinquanta per cento del reddito nazionale proveniva
dall’agricoltura, oggi è ridotto al sei, sette per cento. Ma nulla è paragonabile alle trasformazioni
tecnologiche che sono sotto gli occhi di tutti. Lo spazio planetario
accorciato, lo spazio terrestre quasi annullato. Lavoro manuale e lavoro
intellettuale, tecnologia e scienza, hanno modificato i nostri sensi, la
percezione della materia e degli oggetti e dunque la stessa percezione estetica,
lo sguardo sul mondo (bisogna risalire a Pagliarani, con le sue incursioni nella meccanica quantistica, per rintracciare nella poesia un'apertura verso le scienze fisiche). Hanno allargato la coscienza, aperto nuove strade
nella relazione tra l’io e il noi. Senza scordare i conflitti ereditati dalla
società fordista lungi dallo scomparire del tutto, una cultura nuova attrae
masse e genera conflitti nuovi contro chi vuole farne dominio riservato. Un
altro scontro epico nel nostro orizzonte nell’ala Ovest del pianeta. Altrove,
nell’ala Est, lo scontro per il momento sposta ancora milioni di persone dalle
campagne nelle città, dai paesi impestati dalle tirannie, dai deserti creati
dai falsi progressi. Quasi uno scenario tradizionale per l’epicanuova.
Walcott
invita davvero a rivedere il rapporto con la natura. Non per un amore astratto
verso l'equilibrio filosofico e psicologico (riprendo qui un concetto che hai
espresso nell'intervista) ma perché credo che le scienze che hanno dominato i
due secoli passati hanno sì spostato in avanti la capacità di piegare ai nostri
scopi, elementi della natura fin qui inosservati, ma oggi andare avanti è
diventato molto pericoloso e occorre un nuovo senso di responsabilità, quello
ancora presente agli albori della scienza moderna - presente in opere come
Frakenstein della Shelley, e non è un caso che si tratti di una donna - e
dunque la necessità di un rinnovo del contatto con la natura è
improcrastinabile, solo tornando di nuovo a un contatto ravvicinato è possibile
recuperare la giusta tensione prometeica che oggi possiamo dire che si è
avvitata su di sé. Rifletto ad esempio su come la scienza moderna sia quasi
ossessionata dal così piccolo e invisibile sempre più piccolo, stagione aperta
dalla scissione dell'atomo, su come questo percorso abbia legittimato ai nostri
occhi la cosiddetta conquista dello spazio, la quale si è però fermata non a
caso, le risorse esaurite anzitempo sono segnale evidente di un distacco troppo
grande dallo studio reale del contesto, della natura e dei suoi segreti. La
'conquista' dello spazio dovrà restare a lungo solo pura esplorazione, la
natura prometeica non basta da sola a spiegare la natura umana, accanto ad essa
deve avere uguale spazio quella ulissica.
Mettiamola
così: che me ne faccio di un PC ultra sofisticato se la differenza da quello
precedente è solo d'immagine e nel frattempo i vaccini anti influenzali non
funzionano? Mi dirai che il capitalismo nasce proprio così, con la sua capacità
di sfruttare l'esistente ai fini esclusivi della sua riproduzione. Però occorre
anche dire che all'inizio non era ancora in grado di manifestare appieno questa
sua natura per mancanza di strumenti idonei che si sono raffinati col tempo e
che possiede solo ora che sembra essere arrivato al termine del suo percorso
tecnologico. Solo ora cioè quando è evidente che la politica, la cultura, la
arti in generale, non ne hanno saputo modificare la natura o perlopiù sono
riuscite solo a spostare il percorso su un altro binario senza riuscire a fare
deragliare il treno e a renderlo inservibile. E comunque lo spostamento dalle
contraddizioni eterne e universali (cosa potrebbero dire le donne qui c'è da
chiederselo ma non sarebbero forse oggi gli uomini a farlo se l'ipotesi
vincente invece di quella patriarcale fosse stata quella matriarcale?) tra
natura prometeica e ulissica verso quelle dei mercati è segnale di una crisi
epocale che rischia di portare al deragliamento del treno più per insufficienza
di creatività che per potenza di una soggettività alternativa.
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