Presentiamo Nino Iacovella, una selezione delle poesie
contenute nella raccolta Latitudini delle
braccia che per noi diepicanuova ha assunto un significato importante per
molti motivi, molti di essi sono contenuti nella prefazione di Alessandra
Paganardi dalla quale riportiamo un passo decisivo della sua lettura
dell’opera:
(…)“La poesia di Iacovella è civile soprattutto in quanto
non si chiama fuori dalla Storia. Il potente verismo dell’autore non è mai
asettico, un rischio corso invece dal verismo letterario tradizionale:
Iacovella si assume per intero la responsabilità di un passato non scelto,
spesso neppure vissuto, che nel bene e nel male preme nel suo sguardo quale
inestinguibile eredità transgenerazionale. E’ il “passato che non passa”, il
pegno heideggeriano dell’essere gettati lei mondo. È la serie di fotogrammi
ideali che fermarono i gesti, le rinunce, i limiti da cui siamo stati forgiati,
e che soltanto in apparenza sono andati perduti: come un’acqua corrente essi
sono arrivati alla nostra generazione, e ancora scorrono verso le successive.
«Anche oggi sento i tonfi, / le risa dal quinto piano.»
(pag. 76). I luoghi li custodiscono; un rabdomante particolare, il poeta, li
dissotterra, spesso cogliendo il dolore nascosto di uno sguardo o di
un’esitazione: «A volte torno quel bambino che piange / quando si spegne la
luce, / e rivedo mia madre nel dubbio: / avrà fatto bene a non nascondermi la
paura / a farmi vedere l’oscurità, il buco nero del corridoio / dove tutti
sappiamo bene che il lupo / spalanca ancora le sue fauci» (pag. 119). Ogni
cosa, proprio nella consegna del silenzio, trasuda memoria: le mura delle
fucilazioni, i boschi delle trappole e delle fughe, un paese intero in
ginocchio di fronte alla madre che passa reggendo il cadavere del figlio ucciso
in guerra. Una scena corale :he neppure la Pietà michelangiolesca ha fermato
nella pietra e che il poeta può, anzi
deve focalizzare: se la scultura sorge
idealmente già integrata dalla fruizione collettiva del pubblico, la poesia,
all’opposto, nasce marchiata da un peccato originale d’intimismo, che la
ricerca di Iacovella intenzionalmente taglia e supera. Così ti ho tenuto
stretto lungo il percorso / sino alla porta di casa // senza dire una parola /
senza alcun pianto // Avevo quasi perso l’uso delle braccia» (pag. 44). Il
poeta, grazie al lungo esercizio di uno sguardo meta-individuale, può parlare
all’unisono con i protagonisti di vicende anche molto remote, fino a
immedesimarsi totalmente con loro (lo vediamo nei versi appena citati); oppure,
come in molti altri testi di questa raccolta, può divenire parte in absentia di una coralità che, proprio
come la memoria, passa e rimane.” (…) Alessandra Paganardi.
dalla sezione La linea Gustav
Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati
Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati
E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)
Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo
***
Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un
giardino
dove nitido si scorge il filo
spinato
A stringere questi nodi di memoria
è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori
a terra,
far finta che non siano solo sangue
Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su
colpo,
il battito sulla raffica
Del cuore rimane un proiettile
irrisolto,
una traccia murale sfarinata.
Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa
ancora
dell’attesa breve dei fucilati
***
Nel momento della ritirata tra le
lenzuola
con i corpi arrotolati che si
sciolgono l’un l’altro
tra le pareti lisce, alte come
barricate,
la finestra è un’incursione della
notte
che
me ìe mostra la prospettiva
d’assalto
Quando è il momento di chiudere la
persiana
la rotazione del cardine mi dà
ragione, sgrana
come i denti dell’obice puntato
sulle nostre vite
Il sogno di mio padre è un’allerta:
fai scorte di viveri,
ti raggomitoli in posizione fetale
Come se un bombardamento finisse,
siamo stesi con le mani intrecciate
e le bocche a mordere il cuscino
Questa notte, se la mia presa sarà
forte
più lunga di un abbraccio,
è perché ho sognato che ti tenevo a
stento
mentre i colpi di mortaio
sibilavano in aria
Vedevo l’ospedale da campo che si
allontanava,
sembrava irraggiungibile: eri
ferita come mio padre
e io non volevo lasciarvi morire
***
Sotto il cielo dell’estate
tra i piani azzurri della città
è come se il mare fosse rovesciato
e avesse illuso con la brezza la
litoranea
Ma basta poco per cambiare aria
minare al cuore la bonaccia
ricordare quel giorno del
millenovecentoquarantatre
(letta così quella data, sincopata
e tutta d’un fiato)
richiama nell’aria i colpi di
mitraglia
Mi butto a peso morto sull’asfalto
Sulla testa sibilano come
proiettili
le traiettorie di volo dei gabbiani
***
Incursione aerea del ’43
Questa terra accorcia i respiri,
reclama i passi dei vivi a piedi
nudi
come se non dovessero avere peso
per stare qui, calchi sull’erba
destinata a sfarsi
È il sottosuolo della lapide
dove crescono ancora radici
come braccia
Nell’eterno crollo del rifugio
stanno i corpi
tra gli strati di memoria,
rannicchiati come bulbi
che stentano a rinascere
Per questo siamo noi a sentire
il freddo del silenzio,
e baciamo il marmo con le dita
come per toccarvi
***
Martiri del 6 ottobre
Abbiamo provato a chiudere gli
occhi
di fronte alla lapide, abbracciato
l’albero
per il tronco, come a voler
sciogliere
la corda che ti sorreggeva morto
esposto nudo agli occhi della
strada
E ora che qui non c’è più nessuno
ci facciamo coraggio per ricondurci
al tuo corpo,
alla lama che scavò gli occhi e ti
sventrò a vivo,
come da noi non si faceva nemmeno
ai maiali
Rimaniamo arresi a un silenzio
sconosciuto
ritracciando il percorso del
dolore,
nella città che insorse a mani nude
pur di venire a liberarti
***
Martiri del 6 Ottobre
Sai che non riesco a vedere il
silenzio,
a testa china di una città che ci
fa strada,
che ci vede insieme io e te
Enzo, mio figlio che torna per
sempre
tra le braccia della madre
Cosi ti ho tenuto stretto lungo il
percorso
sino alla porta di casa
senza dire una parola
senza alcun pianto
Avevo quasi perso l’uso delle
braccia
***
Come sassi lanciati sull‘acqua
che affondano dopo breve corsa
le
figure si allontanavano
svanivano
nell‘aria trasparente
GIAMPIERO
NERI
Linea Gustav
Dai
primi passi nei vicoli, dalla nuda pietra
presagivamo
la veduta: la montagna, la strada,
prima
ancora della luce
Cosi
era l’alba del Lunedì di Pasqua,
con
le nostre madri rimaste in un’attesa
chiusa
all’altezza dello stomaco, come se noi
davvero
fossimo stati capaci di partire
Quel
giorno erano così belle le nostre ragazze
nei
loro jeans attillati, e non bastava la bellezza
dell’orgoglio
per desiderarle,
loro
avrebbero già scelto con chi stare,
mentre
noi ragazzi dentro buste di plastica
avevamo
già più vino che pane
Prima
di Bocca di Valle tagliammo la strada
sotto
i piedi una terra che giaceva
come se un percorso stesse per
rinascere
Arrivati alla Cascata qualcuno
prese coraggio,
immerse il corpo nel freddo
dell’acqua
mentre dal bordo sentimmo così vere
le sue ossa
il tratto dolente dei denti serrati
All’addiaccio abbiamo diviso le
cose da mangiare,
le sigarette, il vino ancora caldo
dalla fatica
l’abbiamo bevuto come fossimo stati
oltre la cima degli alberi
Poi nei pressi del piccolo lago
scorgemmo
la pace delle rane
lì dove buttammo le pietre
per vederle saltare dall’acqua:
come sprofonda a volte il masso
senza colpire
altre volte c’è il sangue che torna
a galla,
e a chiudere gli occhi non puoi
che immaginare lo scempio,
mentre a riaprirli è come sperare
che tra le proprie mani non ci sia
tutto quel vuoto,
che la pietra sia ancora lì, come
prima di colpire
In mente ora ci sarebbero i ricordi
dei padri,
doveva essere stato così quando
bombardarono le case:
i piloti alleati come un dio accecato
dall’alto
che tiene il cielo tutto per sé,
oscurandolo
alle piccole creature
Chiaro era il cielo di quell’aprile
quando siamo stati figli e lo
saremmo stati
sempre, di coloro che toccarono la
guerra
a mani nude prima di saltare per
aria,
delle madri rimaste tumulate
nell’esplosione del rifugio,
di corpi rimescolati nella terra
pur di vederci rinascere
E sulla strada del ritorno le
ragazze
si tenevano strette al freddo della
valle,
le teste poggiate sulle spalle
di chi non si era arreso alle
bevute, i sopravvissuti,
quelli che non erano rimasti
sull’erba a vomitare