Abbiamo invitato Nino Iacovella a proporci una scelta di prose e versi inediti accompagnati da personale commento:
Partire da un paesaggio e poi perdersi
Come nell’affermazione di Herzog '...quando devo girare un film parto sempre da un paesaggio e non da una storia' viene concepito il libro La parte arida della pianura.
Da abruzzese la pianura era sempre stata per me solo segno di spaesamento e perdita. Mi mancavano i tradizionali punti di riferimento: la montagna, la collina, il mare. Avevo bisogno di riorientarmi, pacificarmi con una terra ospitante che mi parlava con altra lingua e con silenzi sconosciuti.
Dalla frattura tra paesaggio esteriore e interiore, la poesia è stata la cura necessaria per riempire un vuoto. Ho impiegato nove anni per terminare questo progetto di scrittura. Tanti, troppi. Ma il tempo è stato impiegato anche per portare a compimento un percorso di sostanziale crescita personale e culturale di cui sentivo di avere bisogno.
Volevo scrivere dell’epica dell’uomo tout court. La pianura è diventata così lo scenario dove far rivivere allegoricamente l’avventura umana dall’Olocene sino a quelle tracce di contemporaneità contenute in particolare nella sezione Entropia, sezione dalla quale propongo i testi “Dall’alto della Storia” e “Il mercato rende liberi”.
La lunga gestazione di La parte arida della pianura è la cifra di un salto di qualità del mio modo di scrivere che spero arrivi al lettore.
Da “La parte arida della pianura" (inediti)
Dall’alto della storia
Che cos’è il dolore
se non mancanza d’immaginazione?
e la Storia?
idem
ripetiamolo, vi prego,
come se fossimo della stessa stoffa
di uomini sconfitti alla fine di un assedio
e non una delegazione di troiani da operetta
ansiosa di toccare i muscoli di Achille
Massimo Rizzante
*Abbiamo visto luci accalcarsi
alle porte di Sparta, la città aprirsi
tra le fauci dei suoi fossati,
le metope incarnarsi dai marmi
A quell’ora la sontuosa grazia
del palazzo dei re, la scacchiera
infinita dei pavimenti era nuda
degli sfarzi di opliti dorati
Non ce ne andremo prima di aver rapito
ancora una volta la bellezza di Elena
E attenderemo gli achei
scuoiando all’origine
il cavallo dei loro assedi
Dalle mura di Ilios
isseremo bandiere di una città
che non avrà più paura
di chiamarsi Troia
*
Dicono di una città ricca di canali d’acqua
nel tempo sepolti sotto le strade
Questa città siamo stati prima di abbattere mura,
aprire le porte del nostro riserbo
Ora nel flusso sotterraneo della Storia,
giace la sete della perdita, un’era
rimasta abbandonata nei libri, strappati
pagina a pagina, dispersi nei roghi
di antiche conquiste
Eppure, certi giorni,
quel fumo ritorna dalle strade,
alimenta il fervore produttivo
di uomini che tornano a riempire
piazze senza conflitto, truppe
schierate nel terziario avanzato,
schienate su chaise long da aperitivo,
ricavate (è garantito) da barricate
originali delle Cinque giornate
***
Il mercato rende liberi
In principio era il Logos
e il Logos era presso Dio
e il Logos era Dio.
Egli era in principio presso Dio.
Tutto era stato fatto
per mezzo di lui,
e senza di lui
niente è stato fatto
di tutto ciò che esiste
Vangelo di Giovanni
Io sono in politica a causa del conflitto
tra il bene e il male, e io credo che alla
fine il bene debba prevalere.
Margaret Thatcher
Capitalismo è la sorprendente convinzione
che il più malvagio degli uomini
farà la più malvagia delle cose
per il massimo bene di tutti
John Maynard Keynes
Noi interpretiamo la realtà attraverso le lenti di una teoria.
Mi guardo dall’alto, all’interno dell’outlet, un uomo di mezza età che ricopre alla moda la nudità del tempo e della morte. Forte è la musica di una gioventù andata, traslata sugli assi cartesiani del profitto, pelle tirata a lucido dal consumo di beni voluttuari. Amo vestire il benessere occidentale e ammirare la carica erotica della mia e delle nuove generazioni. Stimolo e risposta. Tutto precipita senza senso ma con i sessi infiammati. Copuliamo attraverso l’uso di automobili di lusso e sogniamo spiagge avatar, caricature esotiche da mostrare nel cortocircuito delle piattaforme asociali.
Entro in un negozio di abbigliamento di massa. La musica pulsa al ritmo di un cuore sovraeccitato. L’orchestrina invisibile ci ammalia. Mi perdo dentro un luogo interno, invisibile ai miei occhi aperti che non si spengono mai. Lo sguardo è un dispositivo rotto per sempre.
Ti accorgi che siamo in tanti a mettere le mani addosso sulle stesse cose. Non una parola con nessuno dei tanti, non una parola con le commesse che hanno soltanto poche domande e risposte da contratto.
Tra ogni uomo e le merci esiste una sola forma univoca di dialogo: leggere il relativo prezzo e capire se proprio quello è il prezzo che dobbiamo pagare tutti.
*
Anno Domini 2022
Usciamo di casa dopo il grande diluvio. Aprile è rimasto intatto insieme ai ripari dei diseredati. I mendicanti non avevano grasso per rimanere a galla, eppure sono ancora lì, relitti in superficie. Attraversiamo strade periferiche. Vita che rimane attaccata alla vita nonostante le scollature.
I poeti ci lasciano testimonianza di una guerra virale, l’hanno cantata nei loro combattimenti porta a porta, a porte chiuse. Poeti come rabdomanti di tagli ancora aperti alla ricerca ognuna della propria lama. Stigmate sottopelle, riserve sottocutanee mitopoietiche, ferite che all'occorrenza tornano a sanguinare.
Tu figlio mi chiedi cos’è una pandemia, e il mio pensiero è a un bivio, tra la tua voce e le parole di Malthus "Gli uomini si moltiplicano più rapidamente delle sussistenze".
Rimango in silenzio. Il virus è la legge naturale, l’ordine da ristabilire nell’entropia umana.
I poeti sanno osservare il dolore, e il dolere, lentamente, entra nelle loro vene e iniziano le parole a incidere il foglio. Basta un movimento per scottarsi a quel calore. E la carta inizia a bruciare.
Figlio, vedi quell’uomo? Si, quell’uomo riverso tra i resti del fast food, lattine vuote e un rivolo di urina che fuoriesce dalle sue braghe. Ha una ferita rivoltante: un piede nudo e rigonfio di lacerazioni. Ricordano in un tuo libro di scuola la foto del magma terrestre quando il pianeta era una palla infuocata. Mentre penso alla cancrena imminente tu mi chiedi se la ferita sia curabile. Guardo altrove e prego per tutti coloro che non hanno saputo reggere la competizione sociale.
Da Aprile arrivano i mesi più crudeli, generano dai social la fioritura dei poeti, piante monumentali che non reggono più il peso di premiazioni e menzioni d'onore per concorsi letterari. Fioccano immagini di sorrisi slabbrati dalla gioia per le targhe. Poeti laureati e diplomati decorati come generali di lunga data per le vittorie sul campo di battaglia.
Figlio, è presto per dirti che questa forma di capitalismo professa il culto del profitto e dei consumi di massa, la libertà al prezzo dell'emancipazione da Dio, e poi il ciclo di ideazione, produzione, uso e rifiuto agganciato come un binario alle nostre vite; così concepiamo, nasciamo, lavoriamo e rimaniamo dismessi già all’origine tra le metastasi della solitudine.
Sento il peso di una colpa generazionale. Siamo noi che abbiamo accettato "Quel programma completo di riforme strutturali che deve spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev'essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l'individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità."
Figlio, come posso spiegarti che tutto questo precipizio è stato montato ad arte dagli abbienti, dalla parte abbiente del mondo? E come posso dirti che: "Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine.”
A breve si scontreranno faglie continentali dalle cartine geografiche, sentiremo accartocciarsi confini politici e riaprirsi fratture di una Storia che ritornerà inattesa sui propri passi.
Forse figlio non c’è più tempo, hai ragione, non è più tempo di silenzi. Devo scegliere da quale parte stare. Se essere la tua guida nello stare in questo mondo, o rimanere all’interno di una torre d’avorio, più che di guardia, e abbandonarmi per sempre a questa corruzione dello sguardo che è la poesia.
*
“Quel programma completo di riforme strutturali…” proclama di Tommaso Padoa Schioppa.
"Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato…” da "Realismo capitalista" di Mark Fisher
Io credo in un solo Io
Io credo in un solo Io, padre onnipotente
creatore del cielo e della terra che ho creato
di tutte le cose visibili e invisibili
di cui sui libri e sui social rimane traccia
Credo in un solo Io, un Gesù Cristo,
unigenito, Figlio mio,
nato da me prima di tutti i secoli,
Io da Io,
luce da luce,
Io vero da Io vero
generato, non creato
per rimanere qui,
tra le pagine immortali
Io credo in un solo Io, vista l’assenza prolungata di dio,
credo nel capitale finanziario, nei paradisi fiscali,
nella massimizzazione del valore per gli azionisti,
nella terra come fattore produttivo
destinato al lavoro degli immigrati,
credo nei meno abbienti destinati alle periferie
nella marginalizzazione del conflitto sociale
che ci rafforza nella competizione globale
Credo nella flessibilità del lavoro,
nell’esercito di mano d’opera di riserva,
nella trickle down economy
Credo nel mercato, che ci rende liberi
di scegliere, credo nei rider
nuovi cavalieri del lavoro, avventurieri
di un’epoca senza epica, imprenditori
di sé stessi fuori dalla noia operaia
Credo nella catena globale del lavoro,
nella produzione dislocata nei paesi
senza diritti e a basso salario
Credo nella dislocazione della produzione
come la celere disloca la spalla del manifestante
quando è a terra, inerme, battuto
Credo nella debolezza della forza contrattuale
dei lavoratori, così come credo nella forza
della propaganda e dell’immagine pubblicitaria
Io credo in un solo Io, nella classe media assuefatta
al limpido calore dell’acqua, alle nostre estati in vacanza,
alle acque termali che ci lessano come rane bollite
Io credo in te dio mio che hai la mia stessa faccia,
credo nella mia generazione che ha eretto
cattedrali egotiche e scavato fossati comuni
per difenderci dagli assedi della morte
Credo in un solo Io, nel mostro interno
che ci vive dentro,
come nel dipinto di Goya
dove Saturno, con occhi alieni, divora il figlio
strappando a brandelli la carne
della propria carne
*
Homo homini lupus
Abbiamo creduto in una terra
promessa, al fuoco delle idee,
al culto del sacro per ripararci
dal freddo ancestrale
Abbiamo creduto allo stare
insieme per difenderci dai lupi
che, come noi, non avevano mai
creduto all’impresa di un singolo
componente del branco
Perché i lupi non lasciavano indietro nessuno,
e se un vecchio moriva, o un cucciolo si perdeva,
solo allora un lupo si staccava dal gruppo
per risalire una cima al chiaro di luna,
pur di rendere visibile a tutti
un ululato di addio
o di bentornato