La recentinchiesta da
parte di una commissione internazionale avvalora il sospetto, sempre avanzato
dalla famiglia, di un suo avvelenamento da parte della dittatura di Pinochet.
La verità si sta facendo strada e tanto più, allora, tenere viva l’attenzione
su di lui e sulla sua grande poesia è necessario nei nostri tempi a rischio
costante di deprivazione della memoria.
Dal Canto General: Alturas de Machu Picchu.
VI
Entonces en la escala de la tierra he subido
Entonces en la escala de la tierra he subido
entre la atroz maraña de las selvas
perdidas
hasta ti, Macchu Picchu.
Alta ciudad de piedras escalares,
por fin morada del que lo terrestre
no escondió en las dormidas
vestiduras.
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas.
Madre de piedra, espuma de los
cóndores.
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena.
Ésta fue la morada, éste es el
sitio:
aquí los anchos granos del maíz
ascendieron
y bajaron de nuevo como granizo rojo.
Aquí la hebra dorada salió de la vicuña
a vestir los
amores, los túmulos, las madres,
el rey, las
oraciones, los guerreros.
Aquí los pies del hombre descansaron de
noche
junto a los pies del águila, en las
altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la
niebla enrarecida,
y tocaron las
tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la
muerte.
Miro las
vestiduras y las manos,
el vestigio del agua en la oquedad
sonora,
la pared suavizada por el tacto de un
rostro
que miró con mis ojos las lámparas
terrestres,
que aceitó con mis manos las
desaparecidas
maderas: porque todo, ropaje, piel,
vasijas,
palabras, vino, panes,
se fue, cayó a la tierra.
Y el aire entró con dedos
de azahar sobre
todos los dormidos:
mil años de
aire, meses, semanas de aire,
de viento azul, de cordillera férrea,
que fueron como suaves huracanes de
pasos
lustrando el solitario recinto de la
piedra.
X.
Piedra en la piedra, el hombre, dónde
estuvo?
Aire en el aire, el hombre, dónde estuvo?
Tiempo en el tiempo, el hombre, dónde
estuvo?
Fuiste también el pedacito roto
de hombre inconcluso, de águila vacía
que por las
calles de hoy, que por las huellas,
que por las hojas del otoño muerto
va machacando el alma hasta la tumba?
La pobre mano, el pie, la pobre vida...
Los días de la luz deshilachada
en ti, como la lluvia
sobre las banderillas de la fiesta,
dieron pétalo a pétalo de su alimento
oscuro
en la boca vacía?
Hambre, coral del hombre,
hambre, planta secreta, raíz de los leñadores,
hambre, subió tu raya de arrecife
hasta estas altas torres desprendidas?
Yo te interrogo, sal de los caminos,
muéstrame la cuchara, déjame,
arquitectura,
roer con un palito los estambres de
piedra,
subir todos los escalones del aire hasta
el vacío,
rascar la entraña hasta tocar el hombre.
Macchu Picchu, pusiste
piedra en la piedra, y en la base,
harapos?
Carbón sobre carbón, y en el fondo la
lágrima?
Fuego en el oro, y en él, temblando el
rojo
goterón de la sangre?
Devuélveme el esclavo que enterraste!
Sacude de las tierras el pan duro
del miserable, muéstrame los vestidos
del siervo y su ventana.
Dime cómo durmió cuando vivía.
Dime si fue su sueño
ronco, entreabierto, como un hoyo negro
hecho por la fatiga sobre el muro.
El muro, el muro! Si sobre su sueño
gravitó cada piso de piedra, y si cayó
bajo ella
como bajo una luna, con el sueño!
Antigua América, novia sumergida,
también tus dedos,
al salir de la selva hacia el alto vacío
de los dioses,
bajo los estandartes nupciales de la luz
y el decoro,
mezclándose al trueno de los tambores y
de las lanzas,
también, también tus dedos,
los que la rosa abstracta y la línea del
frío, los
que el pecho sangriento del nuevo cereal
trasladaron
hasta la tela de materia radiante, hasta
las duras cavidades,
también, también, América enterrada,
guardaste en lo más bajo
en el amargo intestino, como un águila,
el hambre?
VI
Allora sulla
scala della terra sono salito,
tra gli
atroci meandri delle selve perdute,
fino a te,
Machu Picchu.
Alta città
di pietra scalinata,
dimora
degli esseri che il terrestre
non poté
celare nelle vesti assonnate.
In te, come
due linee parallele,
la culla del
tempo e quella dell’uomo
si dondolano
in un vento di rovi.
Madre di
pietra, schiuma dei condor.
Alta
scogliera dell’aurora umana.
Pala
sperduta nella prima spiaggia.
Questa fu la
dimora, questo è il luogo:
qui salirono
i grossi chicchi del granoturco
e scesero di
nuovo come grandine rossa.
Qui la
gugliata sfuggì dalla vigogna
per vestire
gli amori, i sepolcri, le madri,
il re, le
preghiere, i guerrieri.
Qui i piedi
dell’uomo riposarono la notte
accanto ai
piedi dell’aquila, nelle alte tane
carnivore, e
all’alba
calpestarono
con i piedi del tuono la nebbia rarefatta,
e toccarono
le terre e le pietre
per poi
riconoscerle nella notte e nella morte.
Guardo i
vestimenti e le mani,
la traccia
dell’acqua nella cavità sonora,
la parete
addolcita al contatto d'un volto
che guardò
con i miei occhi le lampade terrene,
che unse con
le mie mani gli scomparsi legni:
perché
tutto, vesti, pelle, vasi,
parole,
vino, pani,
tutto
scomparve e ritornò alla terra.
E l’aria
calò con dita
di zagara
sui dormienti:
mille anni
di aria, mesi, settimane di aria,
di vento
azzurro, di ferrea cordigliera,
trascorsi
come soavi uragani di passi
a levigare
il remoto recinto della pietra.
X.
Pietra sulla
pietra, e l’uomo dov’era?
Aria
nell’aria, e l’uomo dov’era?
Tempo nel
tempo, e l’uomo dov’era?
Forse la
particella infranta fosti
dell’uomo
incompiuto, dell’aquila vuota
che sulle
strade d’oggi, sulle orme,
che sulle
foglie dell’autunno morto
si stritola
l’anima fino alla tomba?
Povera la
mano, il piede, la vita...
Forse i
giorni di luce sfilacciata
in te, come
la pioggia
sopra le
banderillas della fiesta,
diedero,
petalo a petalo, il loro cibo
oscuro alla
bocca vuota?
Fame,
corallo dell’uomo,
fame, pianta
segreta, radice dei taglialegna,
fame, è
salita la tua linea di scogli
sino a
queste alte torri distaccate?
Io
t'interrogo, sale delle strade,
mostrami il
cucchiaio, lasciami, architettura,
raschiare
con uno stecco gli stami di pietra,
salire tutti
i gradini dell’aria fino al vuoto,
grattare le
viscere fino a toccare l’uomo.
Macchu
Picchu, posasti tu
pietra su
pietra, e, alla base, stracci?
Carbone su
carbone, e, al fondo, pianto?
Fuoco
nell’oro, e, in esso, tremante,
il rosso
grondare del sangue?
Ridammi lo
schiavo che hai seppellito!
Rimuovi
dalle terre il duro pane
dell’infelice,
mostrami le vesti
del servo,
la sua finestra.
Dimmi come
dormì quando viveva.
Dimmi se fu
il suo sonno
rauco,
socchiuso, come un buco nero
scavato
dalla fatica sul muro.
Il muro!
Dimmi se sopra il suo sonno
gravò ogni
strato di pietra, e s’egli vi cadde sotto
come sotto
una luna, col suo sonno!
Antica
America, sposa sommersa,
anche le tue
dita,
nell’uscire dalla
selva verso l’alto vuoto degli dei,
sotto gli
stendardi nuziali della luce e del decoro,
mischiandosi
al tuono dei tamburi e delle lance,
anche, anche
le tue dita,
quelle che
la rosa astratta e la linea del freddo,
quelle che
il petto sanguigno
del nuovo
cereale trasportarono
fine alla
tela di materia radiosa,
fino alle
dure cavità,
anche, anche
tu, America sepolta,
conservasti
nel più profondo,
giù
nell’amaro intestino,
come
un’aquila, la fame?
***
Io sono il pellegrino
dell’Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l’aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar…»
da Gli uomini
dell’Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l’aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar…»
da Gli uomini
***
Il Dittatore.
È rimasto un odore tra i canneti:
un misto di sangue e carne,
un penetrante
petalo nauseabondo.
Tra le palme da cocco le tombe sono piene
di ossa demolite, di ammutoliti rantoli.
Il delicato satrapo conversa
tra coppe, colletti e cordoni d'oro.
Il piccolo palazzo luccica come un orologio
e le felpate e rapide risate
attraversano a volte i corridoi
e si riuniscono alle voci morte
e alle bocche azzurre sotterrate di fresco.
Il dolore è celato, simile ad una pianta
il cui seme cade senza tregua sul suolo
e fa crescere al buio le grandi foglie cieche.
L'odio si è formato squama su squama,
colpo su colpo, nell'acqua terribile della palude,
con un muso pieno di melma e silenzio.
***
Il Canto General è l’opera più importante di Pablo Neruda, un lunghissimo
poema di cui sono riportate qui sopra la parte sesta e la decima della sezione Alturas de Macchu Picchu: la traduzione
italiana è di Giuseppe Bellini. A queste due sezioni del poema aggiungiamo due
brevi ma assai significative poesie. Lo riproponiamo oggi nella convinzione che
in Italia il nome di Neruda sia ora caduto in oblio, come fu invece maggiormente
celebrato proprio a cavallo degli anni sessanta e settanta per i Cento Sonetti d’amore e una canzone
disperata, opera che – pur importante – ci sembra tuttavia più scontata e
datata.
Originale nella sua
ispirazione, il Canto si discosta dai
modelli precedenti ed europei nel modo di considerare la natura come un
soggetto ed un oggetto di poesia epica che precede la storia umana e che poi la
incontra e la interroga. Per un europeo è un testo sorprendente, affascinante
per la sua lontananza e tuttavia capace di toccare corde profonde, le cui
radici si perdono in una memoria arcaica. Lo sguardo di Neruda è rivolto in due
direzioni per noi fuori dal comune: le altezze vertiginose della catena andina
e le estensioni altrettanto vertiginose dell’Oceano Pacifico. Non è un caso che
la sua poesia si estenda e arrivi a comprendere nel suo abbraccio l’Isola di
Pasqua, quel punto estremo del mondo, cui sono legati miti diversi dai nostri:
Rapa Nui e le avventure ancestrali di un popolo che, imbarcatosi sulle canoe
per quelle lontane isole, non poté tornare indietro per via delle correnti
avverse. Il nostro oceano è quello Atlantico, che da Colombo in poi è lo è per
modo dire, con il suo vai e vieni continuo; abitatissimo, nonostante la
distanza e con il continente europeo che si espone molto in là verso il nord di
quello americano. Il Pacifico è un’altra cosa. Da quelle altezze e lontananze che
ispirano naturalmente anche alla devozione, Neruda sa tuttavia tornare al
lavoro, alla terra che offre il suo cibo, quello povero in particolare, come
avviene in un testo straordinario come l’Ode
alla cipolla.
Vi è però una seconda
ragione che fa di Neruda un poeta diverso anche dagli altri del continente
latino americano. Nonostante il suo rapporto d’amore viscerale con la Spagna
della Repubblica, che lo vide fra i protagonisti di quella vicenda tragica, nel
1936, egli resta comunque meno europeo e più sudamericano di molti altri, forse
di tutti, nonostante alcuni critici lo associno in qualche modo alla poetica
surrealista; il solo che gli si può accostare,forse è il brasiliano Joao
Guimaraes Rosa. Altri scrittori e poeti importanti di quel continente, hanno
nell’Europa un punti di riferimento spesso decisivo, simile alla relazione che
i primi poeti e narratori statunitensi avevano con l’Inghilterra o con Parigi
agli inizi del ‘900 e che nel caso dei latino americani, gli argentini in
particolare, è vivo ancora oggi. Neruda,
invece, guarda il mondo dal suo continente e ne fa materia di una grande poesia
epica. Anche la sua ostilità nei confronti del nord statunitense è diversa da
quella di altri, a volte dettata da una rabbia subalterna, piuttosto che dalla
sprezzatura di chi sa coltivare le proprie grandezze. La distanza dal mondo
anglo-statunitense è, per queste ragioni, culturale prima che politica e
precede la sua militanza comunista, che fu altrettanto intransigente. Lo
testimonia il primo dei due brevi testi finali. Pellegrino umile e devoto verso
l’isola di Pasqua, guarda di uno sguardo sprezzante i pesanti pellegrini inglesi che allattano e innalzano rovine e i commensali del turismo. Infine la poesia
di chiusura ci riporta alla tragedia della dittatura di Pinochet.